Appoggiato al profumo scricchiolante dell'erba appena tagliata
ti allontani dallo sfrigolio spietato del computer,
con braccia intorpidite
nutri il falò di foglie rugose
e pagine raggrinzite di internet.
Non è il rimpianto dei bei tempi andati
ma gli interrogativi sul futuro ti circondano,
schegge impazzite di file psichedelici.
venerdì 29 agosto 2008
lunedì 25 agosto 2008
Mare.
Imprigionato dalla cerchia delle bagnanti,
il vento mi ricorda il mare
che dal blu netto del giovane orizzonte
invecchiando scolora.
Vecchierel bianco e infermo
trascina
la paura della solitudine delle petroliere
la salsedine incattivita degli scafisti
i palloni gonfiati coi sogni persi dei bimbi,
fino ad annullarsi, con un'ultima vibrante protesta,
nell'abissale conformismo democristiano della spiaggia.
il vento mi ricorda il mare
che dal blu netto del giovane orizzonte
invecchiando scolora.
Vecchierel bianco e infermo
trascina
la paura della solitudine delle petroliere
la salsedine incattivita degli scafisti
i palloni gonfiati coi sogni persi dei bimbi,
fino ad annullarsi, con un'ultima vibrante protesta,
nell'abissale conformismo democristiano della spiaggia.
martedì 19 agosto 2008
Miei ricordi di viaggio
Questa è la storia di tre amici, di un cielo che è capace di mutare gli animi, dei sorrisi e delle città che ci hanno riscaldato con la loro bellezza, dei frammenti di vite e civiltà spezzate che ci hanno interrogato, della polvere, degli odori e della gente che ci ha indicato la strada.
Aarif, Fuad e Bilal sono tre bambini, sono una banda, sono un gruppo, sono una famiglia: ognuno di loro è madre, padre, nonno e sorella per tutti gli altri.
Si stringono l’un l’altro e cercano di rimanere vicini, di non perdersi nel flusso vorticoso di idee e merci, di tendoni che a stento trattengono trattative che vanno avanti dal mattino, di persone e muli che si spostano a vicenda, testardamente convinti ognuno di avere la precedenza, di angoli che ti attirano verso stradine laterali misteriosamente silenziose, chiuse alla luce ma aperte alla scoperta, per poi ripiombare, dopo una svolta, senza preavviso, fra grida odoranti di fretta e fra richiami vibranti di profumi, nel tentativo di evitare rigagnoli di provenienza indefinita e teste di animali con cui giocano i gatti, e di seguire i raggi del sole che a fatica riescono a infilarsi fra i sacchi di riso, pasta, datteri e spezie per accarezzare gli occhi velati di interesse di una donna, mentre pare che le mura e le porte tendano le proprie secolari fondamenta per cercare di trattenere lo splendore misero della medina di Fes.
Lo stesso brulichio assordante si aveva quando qui, nella prima università del mondo, si declinavano le opere dei filosofi e matematici greci secondo la legge del sole e dell’Atlante: ancora oggi, strette fra le botteghe e le moschee, si vedono antiche mederse che hanno ospitato i sogni intagliati dai libri degli studenti, nei cui cortili si sono accese passeggiate di discussioni su un passo controverso, ma oggi nessuno dei tre bambini saprebbe né leggerlo né tantomeno scriverlo.
Non hanno mai imparato, né glielo insegneranno mai: hanno capito presto di dover temere il pancione sporgente dalle fondine dei poliziotti, di dover sfuggire oscuri uomini neri, di poter cercare e far pagare ad imbarazzati turisti il pedaggio di un dyram, ma non sanno e non riescono a capire quale sarà il prezzo da scontare per il loro futuro, se riusciranno mai a diventare come quei mercanti, imprigionati nei loro negozi, da cui escono ed entrano soltanto saltando aggrappati ad una corda, oppure come quelli artigiani che costruiscono la propria vita assieme a quella degli oggetti che modellano con mani pazienti. Spesso a volte, di notte, sognano di partire, di lasciarsi alle spalle una vita da gatti, ma le mura della medina, alla luce cruda del giorno, appaiono così difficili da superare…….
Hisham, invece, guarda con impazienza a Fes e al suo futuro: è in campeggio nel posto più paradossale del Marocco, a Ozoud, dove le cascate sono come una ragazza vivave che porta il sorriso fra monotone e barbute colline.
Disteso sotto gli alberi guarda i suoi amici, sente che la loro amicizia è solida come quelle piante, come i loro i suoi denti sono intaccati dall'acqua dei poveri, ma la sua mente è assediata dagli studi fatti, che stanno scavando un fossato fra lui e gli altri: la sua intelligenza, le sue letture, come le scimmie dispettose che spesso rovesciano le loro cose, e frugano con curiosità fra i loro averi, lo spingono a criticare, a cercare di aggirare o di pungere, almeno, l’argine eretto dalla legge regale del silenzio. Vede il suo paese in bilico, lo vede come quei tronchi che spesso paiono esitare prima di precipitare nelle acque ribollenti che li aspettano, avverte la forza e l’orgoglio che arrivano da un passato grandioso, i cui echi sono possenti ancora oggi come lo scroscio delle cascate, però percepisce anche l’oscillare quotidiano fra la tentazione di rifugiarsi sotto un burqa, e la resa incondizionata al Mac Donald’s, fra la legge di Allah e quella del mercato, fra i racconti dei padri e ciò che si scarica da internet, avverte la contraddizione di cui è parte e l’impossibilità di individuare una soluzione, poi voci amichevoli lo riportano a galla come dopo un tuffo troppo spericolato e si avvicina, barcollante per il sonno e strattonato dalle scimmie dei suoi pensieri, agli amici per gustare il the alla menta come i loro padri, e i padri dei loro padri.
Samaah invece aspira all’acqua, come tutta la terra in cui vive: resiste con la sua famiglia, a Ouarzazate, in una casbah, ai confini del deserto, i cui tartari sono orde di turisti che senza ritegno marcano i loro passi pesanti sulle fragili costruzioni di argilla, fango e paglia che resistono ancorate nel deserto, un po’ come la gente che ancora ci abita, ma che rischia di essere lavata via dalle piogge sempre più sregolate e dal disinteresse. Samaah ama quella terra, la terra della sua famiglia, sa di aver bisogno di un ampio orizzonte davanti a sè, in cui rifugiarsi. Lo sanno tutti che è grazie o per colpa della sua testardaggine che vivono ancora nella casbah, sobbarcandosi viaggi faticosi su strade spesso solo un po’ più battute del deserto che paiono ancora violare, e compiendo continue riparazioni per arrestare l’erosione del tempo, per evitare l’insinuarsi strisciante e silenzioso della sabbia. Viste da lontano, le loro case paiono sorreggersi fra loro sulla collina, nello stesso modo rassicurante con cui lei e la sua famiglia, la sera, si stringono al terrapieno e contemplano il deserto di rocce che gioca per loro con il vento.
Vorrei ora, adesso lo stesso vento di grida, di amicizia, di spazi infiniti e di luoghi racchiusi, di vita e annichilimento per essere confuso e guidato.
Aarif, Fuad e Bilal sono tre bambini, sono una banda, sono un gruppo, sono una famiglia: ognuno di loro è madre, padre, nonno e sorella per tutti gli altri.
Si stringono l’un l’altro e cercano di rimanere vicini, di non perdersi nel flusso vorticoso di idee e merci, di tendoni che a stento trattengono trattative che vanno avanti dal mattino, di persone e muli che si spostano a vicenda, testardamente convinti ognuno di avere la precedenza, di angoli che ti attirano verso stradine laterali misteriosamente silenziose, chiuse alla luce ma aperte alla scoperta, per poi ripiombare, dopo una svolta, senza preavviso, fra grida odoranti di fretta e fra richiami vibranti di profumi, nel tentativo di evitare rigagnoli di provenienza indefinita e teste di animali con cui giocano i gatti, e di seguire i raggi del sole che a fatica riescono a infilarsi fra i sacchi di riso, pasta, datteri e spezie per accarezzare gli occhi velati di interesse di una donna, mentre pare che le mura e le porte tendano le proprie secolari fondamenta per cercare di trattenere lo splendore misero della medina di Fes.
Lo stesso brulichio assordante si aveva quando qui, nella prima università del mondo, si declinavano le opere dei filosofi e matematici greci secondo la legge del sole e dell’Atlante: ancora oggi, strette fra le botteghe e le moschee, si vedono antiche mederse che hanno ospitato i sogni intagliati dai libri degli studenti, nei cui cortili si sono accese passeggiate di discussioni su un passo controverso, ma oggi nessuno dei tre bambini saprebbe né leggerlo né tantomeno scriverlo.
Non hanno mai imparato, né glielo insegneranno mai: hanno capito presto di dover temere il pancione sporgente dalle fondine dei poliziotti, di dover sfuggire oscuri uomini neri, di poter cercare e far pagare ad imbarazzati turisti il pedaggio di un dyram, ma non sanno e non riescono a capire quale sarà il prezzo da scontare per il loro futuro, se riusciranno mai a diventare come quei mercanti, imprigionati nei loro negozi, da cui escono ed entrano soltanto saltando aggrappati ad una corda, oppure come quelli artigiani che costruiscono la propria vita assieme a quella degli oggetti che modellano con mani pazienti. Spesso a volte, di notte, sognano di partire, di lasciarsi alle spalle una vita da gatti, ma le mura della medina, alla luce cruda del giorno, appaiono così difficili da superare…….
Hisham, invece, guarda con impazienza a Fes e al suo futuro: è in campeggio nel posto più paradossale del Marocco, a Ozoud, dove le cascate sono come una ragazza vivave che porta il sorriso fra monotone e barbute colline.
Disteso sotto gli alberi guarda i suoi amici, sente che la loro amicizia è solida come quelle piante, come i loro i suoi denti sono intaccati dall'acqua dei poveri, ma la sua mente è assediata dagli studi fatti, che stanno scavando un fossato fra lui e gli altri: la sua intelligenza, le sue letture, come le scimmie dispettose che spesso rovesciano le loro cose, e frugano con curiosità fra i loro averi, lo spingono a criticare, a cercare di aggirare o di pungere, almeno, l’argine eretto dalla legge regale del silenzio. Vede il suo paese in bilico, lo vede come quei tronchi che spesso paiono esitare prima di precipitare nelle acque ribollenti che li aspettano, avverte la forza e l’orgoglio che arrivano da un passato grandioso, i cui echi sono possenti ancora oggi come lo scroscio delle cascate, però percepisce anche l’oscillare quotidiano fra la tentazione di rifugiarsi sotto un burqa, e la resa incondizionata al Mac Donald’s, fra la legge di Allah e quella del mercato, fra i racconti dei padri e ciò che si scarica da internet, avverte la contraddizione di cui è parte e l’impossibilità di individuare una soluzione, poi voci amichevoli lo riportano a galla come dopo un tuffo troppo spericolato e si avvicina, barcollante per il sonno e strattonato dalle scimmie dei suoi pensieri, agli amici per gustare il the alla menta come i loro padri, e i padri dei loro padri.
Samaah invece aspira all’acqua, come tutta la terra in cui vive: resiste con la sua famiglia, a Ouarzazate, in una casbah, ai confini del deserto, i cui tartari sono orde di turisti che senza ritegno marcano i loro passi pesanti sulle fragili costruzioni di argilla, fango e paglia che resistono ancorate nel deserto, un po’ come la gente che ancora ci abita, ma che rischia di essere lavata via dalle piogge sempre più sregolate e dal disinteresse. Samaah ama quella terra, la terra della sua famiglia, sa di aver bisogno di un ampio orizzonte davanti a sè, in cui rifugiarsi. Lo sanno tutti che è grazie o per colpa della sua testardaggine che vivono ancora nella casbah, sobbarcandosi viaggi faticosi su strade spesso solo un po’ più battute del deserto che paiono ancora violare, e compiendo continue riparazioni per arrestare l’erosione del tempo, per evitare l’insinuarsi strisciante e silenzioso della sabbia. Viste da lontano, le loro case paiono sorreggersi fra loro sulla collina, nello stesso modo rassicurante con cui lei e la sua famiglia, la sera, si stringono al terrapieno e contemplano il deserto di rocce che gioca per loro con il vento.
Vorrei ora, adesso lo stesso vento di grida, di amicizia, di spazi infiniti e di luoghi racchiusi, di vita e annichilimento per essere confuso e guidato.
Marrakech
Sorrisi dei bimbi che vendono sogni sintetici,
serpenti drogati che si contorcono, timidi, per una tua moneta,
profumi di cibo cotto dalle urla e dal sole,
calore che la folla amplifica
conscia di essere moltitudine onnipotente :
Jama‘a el-Fnaa vorace ti ingoia
strappandoti dal Palazzo al-Badi
che solitario e orgoglioso non cerca di trattenerti,
colmo di sconfitto fascino austero.
serpenti drogati che si contorcono, timidi, per una tua moneta,
profumi di cibo cotto dalle urla e dal sole,
calore che la folla amplifica
conscia di essere moltitudine onnipotente :
Jama‘a el-Fnaa vorace ti ingoia
strappandoti dal Palazzo al-Badi
che solitario e orgoglioso non cerca di trattenerti,
colmo di sconfitto fascino austero.
C'è chi l'amore lo sceglie per professione.
Statue d'ebano piagate,
gettate sui treni salati d'estate,
nel sonno sfuggono a mani protese
inanellate d'euro,
insultate dalla malizia con cui le ignoriamo.
gettate sui treni salati d'estate,
nel sonno sfuggono a mani protese
inanellate d'euro,
insultate dalla malizia con cui le ignoriamo.
venerdì 15 agosto 2008
Come una corda tesa
Finito il pranzo la perpetua guarda don Mario scuotendo la testa: vede la figura grassoccia e famigliare del prete con cui vive da più di trent’anni dirigersi non più verso la sua poltrona preferita, come di solito faceva, ma verso il computer. Il prete lo accende, con fare ancora insicuro, in fondo ha imparato ad usarlo da poco, mentre in modo pensoso accarezza un grosso volume rilegato in pelle un po’ lisa. La perpetua sa già come lo troverà il giorno dopo, ancora addormentato sulla sedia, con il libro, che ha scoperto essere il registro parrocchiale, vicino ed il computer ancora acceso, che ronza dolcemente vicino a lui.
E’ da un po’ di sere, infatti, che Mario naviga fra i nomi, quelli del passato che ha visto crescere e che vivono spesso solo più nei suoi ricordi e quelli del presente, registrati ormai direttamente sul computer, con cui parla e si confronta tutti i giorni.
Oggi, scorrendo distrattamente le pagine, cerca in modo quasi inconsapevole le prime note scritte su quel libro dalla sua vecchia penna stilografica, il regalo dei suoi genitori per il suo nuovo incarico da sacerdote. Le sue dita accarezzano una data in particolare: 13 dicembre 1944. Quel giorno le ultime unghiate della guerra lo avevano coinvolto da vicino. Lui era un giovane prete e anche se era arrivato da poco in quel paesello, ben presto aveva sentito parlare di un pugile, Maurizio, una vera e propria leggenda locale, l’uomo più forte delle Langhe, dicevano.
Ebbene il giorno in cui i fascisti erano venuti a prendere il padre di Maurizio per portarlo via, per fucilarlo o per torturarlo, suo figlio, quell’uomo enorme che da tempo non subiva una sconfitta sul ring, non aveva esitato ed era subito corso in suo aiuto. Tuttavia era disarmato e i suoi grossi pugni non erano riusciti né a stringere né a fermare le pallottole che lo avevano crivellato. Non più si erano uditi gli urrah del suo pubblico, mentre ancora ogni tanto nella memoria e nella mente di Mario risuonano questi interrogativi: avrebbe potuto fare qualcosa, non aveva avuto il coraggio di frapporsi oppure aveva semplicemente evitato una vittima in più inutile?
E’ da un po’ di tempo che sono queste le domande che si affrontano nella sua mente: da una parte gli eserciti ordinati delle idee quotidiane, delle mille incombenze da svolgere, dall’altra la guerriglia scaltra dei dubbi e degli interrogativi.
Non vuole stendere bilanci, a quelli ci pensano gli altri, cerca di estrarre un significato da ciò che ha fatto, di cercare il filo di Arianna, perchè è forte la curiosità di vedere cosa lo attende all’altro capo. Vista la sua abitudine, la sua propensione a confrontarsi con gli altri, vuole farlo andando a riannodare i ricordi delle vite che si sono intrecciate con le sue.
Forse il primo a mettergli in testa quest’idea è stato Giuseppe, un altro nome del suo librone, un suo amico fraterno. Aveva avuto una vita dura: il lavoro nella panetteria di suo padre, scelta impostagli dalla necessità di mantenere sé e la sua famiglia, il forte rimpianto per non aver mai potuto studiare, l’orgoglio feroce per la figlia, che era riuscita a laurearsi a Torino. Ma più di tutto era sempre stato grande l’amore per il suo paese, e per la casa che aveva costruito:ne era fiero, l’amava più della moglie, come Mario a volte bonariamente gli ricordava. Per Giuseppe non era solo una semplice casa di campagna, ma la prova che era riuscito a dirigere con mano ferma la sua vita fra i sacchi di farina, il calore feroce del forno d’estate, la sveglia ad ore impossibili. Il sacerdote socchiude gli occhi e capisce ora, forse meglio che in passato, ciò che voleva dire l’attenzione ai particolari dell’amico, la stessa che ora lui riserva ai dettagli della propria vita.
Lui non vuole chiedersi se ha costruito qualcosa; certo un nuovo oratorio, molte amicizie, l’affetto sicuro di qualche persona, ma rimane sempre un fondo di ansia in agguato al dì là nelle ombre della notte, che né la Bibbia né la tranquillità delle abitudini quotidiane riescono a rischiarare del tutto.
Altre ombre, invece, gli avevano allontanato tutta una generazione, i cui nomi, vicini fra loro, cerca sul vecchio registro quasi con riluttanza: Luca, Lorenzo, Martina e poi anche Chiara, Elisa e Francesco. Il fascino delle nuove idee che spirava dalle università di Torino alla fine degli anni Sessanta aveva allontanato i suoi ragazzi migliori, che tornavano al paese con parole, vestiti, musiche e sogni totalmente nuovi, che non comprendevano più né lui né ciò che lui rappresentava.
Quello era stato uno schiaffo molto forte al suo orgoglio: per la prima volta si era sentito in balia di forze più grandi delle sue. Il suo lavoro entusiasta ed indefesso con quei ragazzi non era servito quindi a nulla? Niente era rimasto nelle loro menti?
Certo, deve ammettere con un sospiro, mentre si sgranchisce le braccia, ora molti di loro sono suoi parrocchiani, ma tutte le volte che li vede non riesce a non provare il senso, anche se ormai latente, di sconfitta. E’ un po’ non voler ammettere di non riuscire ad incidere sulla realtà, lui che aveva scelto di fare il prete proprio per cambiarla. Ma poi si cambia la realtà? O i suoi sono solo sogni, solo un po’ diversi da quelli colorati di quei ragazzi?
Invece, e ora i suoi pensieri cambiano tono bruscamente, la sua vecchia amica Federica non era mai riuscita a leggere con chiarezza la realtà, soprattutto quando si trattava del suo unico figlio, Giacomo, dirigente molto influente di un’ASL locale: vedere i loro nomi sulla carta gli provoca sempre un po’ di smarrimento e di rammarico. Quando Giacomo era stato travolto da uno dei tanti scandali che periodicamente scuotevano la politica locale, lei, troppo fiera del figlio per ammettere che potesse sbagliare, era andata nel suo ufficio per distruggere i documenti che pensava potessero comprometterlo. Mario scuote la testa, ancora sorpreso in cuor suo da quella donna orgogliosa, un tempo di sicuro bella, che aveva vinto la riservatezza custodita all’ombra delle colline da lei tanto amate per esporsi in tal modo: e non riesce ad immaginarsi la sua reazione di fronte ai carabinieri che l’avevano sorpresa e denunciata. Ci doveva essere altro, oltre all’amore senza limiti per Giacomo: forse il senso di un rigore morale ed etico che si era allentato col tempo, inseguito ormai anche fra i vigneti da lei tanto amati dai lupi affamati dell’arrivismo sfrenato
Mario decide bruscamente che quegli interrogativi sono troppi per una fredda serata autunnale, e cerca calore nello schermo freddo del computer, che gli elenca una serie di nomi, alcuni dei quali per la prima volta di extracomunitari. Sorride amaro quando pensa ai telegiornali che soffiano sul fuoco dell’atavica ed insopprimibile paura del diverso, lui stesso ha dovuto lottare contro pregiudizi che non credeva si nascondessero in lui. Forse in questo campo è riuscito a migliorare qualcosa, anche se l’aiuto più grande gli è stato dato da Andrei e dalla sua famiglia, i cui nomi ora gli sorridono dallo schermo. Andrei è arrivato, come muratore, in quel piccolo paese durante l’alluvione del 1994 e la sua dedizione, la sua infaticabilità hanno dato la prima spallata al muro di ignoranza reciproca: sorride quando pensa a rumeni e langaroli coperti dal fango, indistinguibili, uniti dalla stessa fatica e dalla stessa urgenza.
E’ stata l’ennesima volta in cui Mario ha visto la sua gente dimostrare di saper lottare fino in fondo, anche se alcune sere, la sensazione straniante che avvolge l’anziano sacerdote è quella di una corsa il cui fine, il cui scopo ultimo gli è ignoto.
http://it.wikipedia.org/wiki/Mombasiglio
E’ da un po’ di sere, infatti, che Mario naviga fra i nomi, quelli del passato che ha visto crescere e che vivono spesso solo più nei suoi ricordi e quelli del presente, registrati ormai direttamente sul computer, con cui parla e si confronta tutti i giorni.
Oggi, scorrendo distrattamente le pagine, cerca in modo quasi inconsapevole le prime note scritte su quel libro dalla sua vecchia penna stilografica, il regalo dei suoi genitori per il suo nuovo incarico da sacerdote. Le sue dita accarezzano una data in particolare: 13 dicembre 1944. Quel giorno le ultime unghiate della guerra lo avevano coinvolto da vicino. Lui era un giovane prete e anche se era arrivato da poco in quel paesello, ben presto aveva sentito parlare di un pugile, Maurizio, una vera e propria leggenda locale, l’uomo più forte delle Langhe, dicevano.
Ebbene il giorno in cui i fascisti erano venuti a prendere il padre di Maurizio per portarlo via, per fucilarlo o per torturarlo, suo figlio, quell’uomo enorme che da tempo non subiva una sconfitta sul ring, non aveva esitato ed era subito corso in suo aiuto. Tuttavia era disarmato e i suoi grossi pugni non erano riusciti né a stringere né a fermare le pallottole che lo avevano crivellato. Non più si erano uditi gli urrah del suo pubblico, mentre ancora ogni tanto nella memoria e nella mente di Mario risuonano questi interrogativi: avrebbe potuto fare qualcosa, non aveva avuto il coraggio di frapporsi oppure aveva semplicemente evitato una vittima in più inutile?
E’ da un po’ di tempo che sono queste le domande che si affrontano nella sua mente: da una parte gli eserciti ordinati delle idee quotidiane, delle mille incombenze da svolgere, dall’altra la guerriglia scaltra dei dubbi e degli interrogativi.
Non vuole stendere bilanci, a quelli ci pensano gli altri, cerca di estrarre un significato da ciò che ha fatto, di cercare il filo di Arianna, perchè è forte la curiosità di vedere cosa lo attende all’altro capo. Vista la sua abitudine, la sua propensione a confrontarsi con gli altri, vuole farlo andando a riannodare i ricordi delle vite che si sono intrecciate con le sue.
Forse il primo a mettergli in testa quest’idea è stato Giuseppe, un altro nome del suo librone, un suo amico fraterno. Aveva avuto una vita dura: il lavoro nella panetteria di suo padre, scelta impostagli dalla necessità di mantenere sé e la sua famiglia, il forte rimpianto per non aver mai potuto studiare, l’orgoglio feroce per la figlia, che era riuscita a laurearsi a Torino. Ma più di tutto era sempre stato grande l’amore per il suo paese, e per la casa che aveva costruito:ne era fiero, l’amava più della moglie, come Mario a volte bonariamente gli ricordava. Per Giuseppe non era solo una semplice casa di campagna, ma la prova che era riuscito a dirigere con mano ferma la sua vita fra i sacchi di farina, il calore feroce del forno d’estate, la sveglia ad ore impossibili. Il sacerdote socchiude gli occhi e capisce ora, forse meglio che in passato, ciò che voleva dire l’attenzione ai particolari dell’amico, la stessa che ora lui riserva ai dettagli della propria vita.
Lui non vuole chiedersi se ha costruito qualcosa; certo un nuovo oratorio, molte amicizie, l’affetto sicuro di qualche persona, ma rimane sempre un fondo di ansia in agguato al dì là nelle ombre della notte, che né la Bibbia né la tranquillità delle abitudini quotidiane riescono a rischiarare del tutto.
Altre ombre, invece, gli avevano allontanato tutta una generazione, i cui nomi, vicini fra loro, cerca sul vecchio registro quasi con riluttanza: Luca, Lorenzo, Martina e poi anche Chiara, Elisa e Francesco. Il fascino delle nuove idee che spirava dalle università di Torino alla fine degli anni Sessanta aveva allontanato i suoi ragazzi migliori, che tornavano al paese con parole, vestiti, musiche e sogni totalmente nuovi, che non comprendevano più né lui né ciò che lui rappresentava.
Quello era stato uno schiaffo molto forte al suo orgoglio: per la prima volta si era sentito in balia di forze più grandi delle sue. Il suo lavoro entusiasta ed indefesso con quei ragazzi non era servito quindi a nulla? Niente era rimasto nelle loro menti?
Certo, deve ammettere con un sospiro, mentre si sgranchisce le braccia, ora molti di loro sono suoi parrocchiani, ma tutte le volte che li vede non riesce a non provare il senso, anche se ormai latente, di sconfitta. E’ un po’ non voler ammettere di non riuscire ad incidere sulla realtà, lui che aveva scelto di fare il prete proprio per cambiarla. Ma poi si cambia la realtà? O i suoi sono solo sogni, solo un po’ diversi da quelli colorati di quei ragazzi?
Invece, e ora i suoi pensieri cambiano tono bruscamente, la sua vecchia amica Federica non era mai riuscita a leggere con chiarezza la realtà, soprattutto quando si trattava del suo unico figlio, Giacomo, dirigente molto influente di un’ASL locale: vedere i loro nomi sulla carta gli provoca sempre un po’ di smarrimento e di rammarico. Quando Giacomo era stato travolto da uno dei tanti scandali che periodicamente scuotevano la politica locale, lei, troppo fiera del figlio per ammettere che potesse sbagliare, era andata nel suo ufficio per distruggere i documenti che pensava potessero comprometterlo. Mario scuote la testa, ancora sorpreso in cuor suo da quella donna orgogliosa, un tempo di sicuro bella, che aveva vinto la riservatezza custodita all’ombra delle colline da lei tanto amate per esporsi in tal modo: e non riesce ad immaginarsi la sua reazione di fronte ai carabinieri che l’avevano sorpresa e denunciata. Ci doveva essere altro, oltre all’amore senza limiti per Giacomo: forse il senso di un rigore morale ed etico che si era allentato col tempo, inseguito ormai anche fra i vigneti da lei tanto amati dai lupi affamati dell’arrivismo sfrenato
Mario decide bruscamente che quegli interrogativi sono troppi per una fredda serata autunnale, e cerca calore nello schermo freddo del computer, che gli elenca una serie di nomi, alcuni dei quali per la prima volta di extracomunitari. Sorride amaro quando pensa ai telegiornali che soffiano sul fuoco dell’atavica ed insopprimibile paura del diverso, lui stesso ha dovuto lottare contro pregiudizi che non credeva si nascondessero in lui. Forse in questo campo è riuscito a migliorare qualcosa, anche se l’aiuto più grande gli è stato dato da Andrei e dalla sua famiglia, i cui nomi ora gli sorridono dallo schermo. Andrei è arrivato, come muratore, in quel piccolo paese durante l’alluvione del 1994 e la sua dedizione, la sua infaticabilità hanno dato la prima spallata al muro di ignoranza reciproca: sorride quando pensa a rumeni e langaroli coperti dal fango, indistinguibili, uniti dalla stessa fatica e dalla stessa urgenza.
E’ stata l’ennesima volta in cui Mario ha visto la sua gente dimostrare di saper lottare fino in fondo, anche se alcune sere, la sensazione straniante che avvolge l’anziano sacerdote è quella di una corsa il cui fine, il cui scopo ultimo gli è ignoto.
http://it.wikipedia.org/wiki/Mombasiglio
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