martedì 19 agosto 2008

Miei ricordi di viaggio

Questa è la storia di tre amici, di un cielo che è capace di mutare gli animi, dei sorrisi e delle città che ci hanno riscaldato con la loro bellezza, dei frammenti di vite e civiltà spezzate che ci hanno interrogato, della polvere, degli odori e della gente che ci ha indicato la strada.

Aarif, Fuad e Bilal sono tre bambini, sono una banda, sono un gruppo, sono una famiglia: ognuno di loro è madre, padre, nonno e sorella per tutti gli altri.
Si stringono l’un l’altro e cercano di rimanere vicini, di non perdersi nel flusso vorticoso di idee e merci, di tendoni che a stento trattengono trattative che vanno avanti dal mattino, di persone e muli che si spostano a vicenda, testardamente convinti ognuno di avere la precedenza, di angoli che ti attirano verso stradine laterali misteriosamente silenziose, chiuse alla luce ma aperte alla scoperta, per poi ripiombare, dopo una svolta, senza preavviso, fra grida odoranti di fretta e fra richiami vibranti di profumi, nel tentativo di evitare rigagnoli di provenienza indefinita e teste di animali con cui giocano i gatti, e di seguire i raggi del sole che a fatica riescono a infilarsi fra i sacchi di riso, pasta, datteri e spezie per accarezzare gli occhi velati di interesse di una donna, mentre pare che le mura e le porte tendano le proprie secolari fondamenta per cercare di trattenere lo splendore misero della medina di Fes.
Lo stesso brulichio assordante si aveva quando qui, nella prima università del mondo, si declinavano le opere dei filosofi e matematici greci secondo la legge del sole e dell’Atlante: ancora oggi, strette fra le botteghe e le moschee, si vedono antiche mederse che hanno ospitato i sogni intagliati dai libri degli studenti, nei cui cortili si sono accese passeggiate di discussioni su un passo controverso, ma oggi nessuno dei tre bambini saprebbe né leggerlo né tantomeno scriverlo.
Non hanno mai imparato, né glielo insegneranno mai: hanno capito presto di dover temere il pancione sporgente dalle fondine dei poliziotti, di dover sfuggire oscuri uomini neri, di poter cercare e far pagare ad imbarazzati turisti il pedaggio di un dyram, ma non sanno e non riescono a capire quale sarà il prezzo da scontare per il loro futuro, se riusciranno mai a diventare come quei mercanti, imprigionati nei loro negozi, da cui escono ed entrano soltanto saltando aggrappati ad una corda, oppure come quelli artigiani che costruiscono la propria vita assieme a quella degli oggetti che modellano con mani pazienti. Spesso a volte, di notte, sognano di partire, di lasciarsi alle spalle una vita da gatti, ma le mura della medina, alla luce cruda del giorno, appaiono così difficili da superare…….

Hisham, invece, guarda con impazienza a Fes e al suo futuro: è in campeggio nel posto più paradossale del Marocco, a Ozoud, dove le cascate sono come una ragazza vivave che porta il sorriso fra monotone e barbute colline.
Disteso sotto gli alberi guarda i suoi amici, sente che la loro amicizia è solida come quelle piante, come i loro i suoi denti sono intaccati dall'acqua dei poveri, ma la sua mente è assediata dagli studi fatti, che stanno scavando un fossato fra lui e gli altri: la sua intelligenza, le sue letture, come le scimmie dispettose che spesso rovesciano le loro cose, e frugano con curiosità fra i loro averi, lo spingono a criticare, a cercare di aggirare o di pungere, almeno, l’argine eretto dalla legge regale del silenzio. Vede il suo paese in bilico, lo vede come quei tronchi che spesso paiono esitare prima di precipitare nelle acque ribollenti che li aspettano, avverte la forza e l’orgoglio che arrivano da un passato grandioso, i cui echi sono possenti ancora oggi come lo scroscio delle cascate, però percepisce anche l’oscillare quotidiano fra la tentazione di rifugiarsi sotto un burqa, e la resa incondizionata al Mac Donald’s, fra la legge di Allah e quella del mercato, fra i racconti dei padri e ciò che si scarica da internet, avverte la contraddizione di cui è parte e l’impossibilità di individuare una soluzione, poi voci amichevoli lo riportano a galla come dopo un tuffo troppo spericolato e si avvicina, barcollante per il sonno e strattonato dalle scimmie dei suoi pensieri, agli amici per gustare il the alla menta come i loro padri, e i padri dei loro padri.

Samaah invece aspira all’acqua, come tutta la terra in cui vive: resiste con la sua famiglia, a Ouarzazate, in una casbah, ai confini del deserto, i cui tartari sono orde di turisti che senza ritegno marcano i loro passi pesanti sulle fragili costruzioni di argilla, fango e paglia che resistono ancorate nel deserto, un po’ come la gente che ancora ci abita, ma che rischia di essere lavata via dalle piogge sempre più sregolate e dal disinteresse. Samaah ama quella terra, la terra della sua famiglia, sa di aver bisogno di un ampio orizzonte davanti a sè, in cui rifugiarsi. Lo sanno tutti che è grazie o per colpa della sua testardaggine che vivono ancora nella casbah, sobbarcandosi viaggi faticosi su strade spesso solo un po’ più battute del deserto che paiono ancora violare, e compiendo continue riparazioni per arrestare l’erosione del tempo, per evitare l’insinuarsi strisciante e silenzioso della sabbia. Viste da lontano, le loro case paiono sorreggersi fra loro sulla collina, nello stesso modo rassicurante con cui lei e la sua famiglia, la sera, si stringono al terrapieno e contemplano il deserto di rocce che gioca per loro con il vento.

Vorrei ora, adesso lo stesso vento di grida, di amicizia, di spazi infiniti e di luoghi racchiusi, di vita e annichilimento per essere confuso e guidato.

1 commento:

theuncle ha detto...

...ti sei lasciato andare ai ricordi...hai scritto con le cadenze della mente...un gran riusultato...