martedì 21 aprile 2009

Ambulatorio di psichiatria

La mattina consegno giornali gratuiti,
regalo pagine di vita
alla gente che riesce a morderla,
mentre le mie mani, spesso, afferrano ciò che non è.
Mio padre e mio marito, impazienti,
mi attendono, cuoca ed amante,
ed il loro stupore dubbioso,
quando parlo e danzo con le ombre,
si rintana nell’oblio del click del telecomando.
La meta dei miei passi impacciati,
il colore sfocato del mio rossetto
non interessano più alla mia mente,
che cerca, ormai, solo l’oblio chimico
delle nature morte dei miei pomeriggi al plasma:
lexotan e serenase per l’invidia verso le luci dei reality,
la pace delle televendite con cui drogo i miei silenzi.
Ho letto una volta “ che la terra ti sia lieve”,
ma io sono schiacciata dalle ombre,
più pesanti del ricordo dei miei rimpianti.

sabato 28 marzo 2009

In città.

L'aria ustionante che il pulman spinge davanti a sè
insegue il ragazzo in bici,
il bufalo inferocito del motore si avvicina,

sembra volerlo strattonare, gettare a terra,
poi l'effetto doppler fa valere la sua legge,

e si allontana, mansueto:
senza pausa le iene delle macchine lo inseguono affamate,
spaventano nervose il ritmo del pedalare,

scattano mordenti al cambiare del semaforo:
poi l'ombra di una strada laterale, l'immagine periferica di pedoni innocui,
l'ultimo scampanellio a salutare gli amici:
la ferocia del sole è ora lontana, si mescolano risate ed affetti,
ma il richiamo della strada lo attende sicuro,

con le fauci pigramente spalancate.

giovedì 26 marzo 2009

Tempi di crisi.

"I pensieri rivolti a quella casa, quella grande e solida casa, immersa nel suo quadrato verde, rimbalzavano fra loro: vi erano quelli frettolosi rivolti dalla gente che passava, per cui era solo un punto fermo del paesaggio, quelli aggrottati dei vecchi se vedevano l'erba da tagliare o la vernice del cancello un pò scrostata. A questi si aggiungevano quelli dei bimbi che vedevano solo giochi e corse, mentre le mascelle rasate dei loro padri ne valutano il valore e la posizione, scuotendosi in sorrisi di approvazione o di diniego. Dalle borsette, invece, le loro madri estraevano trilli di " che tesoro di casa, che meraviglia" o fazzoletti di preoccupazione" troppo grande, troppe stanze da pulire"".

La donna, sorridendo, rimise a posto il quaderno che aveva trovato nelle stanza del figlio e si affacciò alla finestra. Le era sempre piaciuto il contatto col vetro: quella sensazione così netta di separazione, di ordine: fuori il mondo, che in quella sera tremolante di fine novembre le appariva come non mai un insieme di casualità impossibili da governare, dentro la sua casa, la sua famiglia. Per un attimo corrugò la fronte, pensando a suo marito che era ancora là fuori: lo vide come le appariva da un pò, non più il cavaliere vincente della sua fanciullezza, ma un uomo sempre un pò più stanco.Era come, era come, e sorrise: era come quel lampione là in fondo; sotto c'era sempre il loro amore, le lore risate, ma come rarefatte, come soffuse, filtrate da una serie di rammarichi, occasioni perse, giorni in cui ci si doveva divertire ma si era finito per litigare.Poi la crisi, le voci: le cene con i loro amici, con i suoi colleghi erano sempre meno divertenti, sembravano un insieme di complici che si spiavano a vicenda, senza nessuno che trovasse la forza o il vantaggio apparente di una confessione. Ma forse erano tutte impressioni, come le ripeteva per convincersi il pigiama di suo marito. Sbadigliò, scrollò le spalle, tirò le tende, meccanicamente raccolse un libro per terra. Nel farlo si procurò un piccolo dolore, niente di che, e mentalmente, mentre si raggomitolava come per difendersi, imprecò prima contro suo figlio, poi contro la domestica straniera. Di sicuro la donna non l'aveva visto; pensò che erano tutti uguali, sempre rinchiusi nei loro silenzi, quegli sguardi umidi di chi o chiede o afferma una sicurezza che non ha. Erano un altro elemento di disordine, tutte quelle mani sporche protese, rabbrividì di nuovo vergognandosi forse un poco. Suo figlio, e una piega meno amara si fece largo fra il rossetto, suo figlio l'avrebbe sgridata per quelle frasi così, però non ci poteva farci niente, erano cose che sentiva. Ricordava ancora le liti furibonde per le ultime elezioni: per la prima volta da tempo immemore un membro della sua famiglia, il figlio maschio poi, aveva votato per l'altro partito, il partito di quelli lì, e rifece, quasi inconsciamente, il gesto di disprezzo della mano arcuata di suo padre. Il partito di quelli lì, quel suo nuovo presidente, quelle riforme ora agitavano ancora di più il mondo la fuori: altre preoccupazioni, e le sfuggi un nuovo sospiro.

Nell'altra stanza la domestica aveva seguito mentalmente i passi della signora, e l'ultimo sospiro ne confermò il sospetto: sarebbe stata un'altra serata pesante. A lei non pesavano tanti le batutte e i commenti del padre, gli scarmigliati discorsi del figlio; non li capiva, opponeva loro un sorriso gentile che chiudeva ogni porta ma la preoccupava di più la signora. In lei vedeva tutto il mondo nuovo in cui era stata catapultata: il primo ricordo era il furgone scassato col motore che tremava quasi più di lei quando era stata condotta lì. Poi poco altro; qualche giornale, parole intuite alla radio, una strana impressione quando si nominava il proprio paese, trattato con distacco e un pò di arroganza. D'altronde non si poteva lamentare: il suo fidanzato, del suo stesso paese ora era lontano a spaccarsi la schiena nei campi, era già tanto che riuscisse a scriverle, e mentre il ricordo dei suoi baci le distendeva i capelli ribelli, si avviò verso la cucina per la cena.

" Caro diario, oggi è stata una giornata particolare: l'avevo sognato per tutta la notte, o almeno così mi è sembrato al risveglio: ero strana, confusa, durante le prime ore di lezione non ho mai smesso di pensare a lui, attendevo l'intervallo. Ebbene lì una delusione; l'ho visto, serio con la sua giacca, ci siamo fermati ma non siamo riusciti a far partire un discorso: un attimo primo di scivolare sulle solite banalità, il tempo, la famiglia, che temo non avrei sopportato, mi ha chiesto, mi è sembrato persino con un tono di voce diverso, di vederci il pomeriggio dopo la scuola. Ho detto di sì, tutto mi è sembrato di nuovo bellissimo, gli ho stretto la mano, me ne sono andata, felice!. La prima ora ero al settimo cielo poi ho temuto di nuovo la pausa pranzo; un altro imbarazzo? per fortuna lui non c'era, forse giocava in palestra; poi le ultime lezione, l'attesa che cresceva, e l'ho visto sotto il portico ad attendermi. Abbiamo fatto due passi, e lo so lo so....non importano le parole, caro diario, conta solo che oggi 28 novembre 1933, io Elisabeth Johnson ho baciato un uomo!!e proprio a Richmond, dove pensavo non potesse mai succedere..! e che uomo: il ragazzo delle grande casa lì in fondo....e pensavo che temevo che potesse correre dietro a quella orribile domestica italiana che hanno appena assunto...:ma comunque: mi ha baciata, mi ha guardata serio, era anche un pò buffo, poi senza dire niente mi ha riaccompagnato a casa...sono così felice!!!"

domenica 22 febbraio 2009

Cerchio

I miei passi pesanti a rincorrere
le tue orme ridenti,
i tuoi occhi che si rifugiano
nel calore perplesso dei miei,
la spontaneità cesellata dei tuoi gesti

che mette in fuga i lupi affamati dei miei sogni,
spaccando la vetrina vuota

dei miei saldi fuori stagione:
il pomeriggio che ti ho incontrata,
ho imparato a pesare il tempo,
il prima ed il dopo dal tuo sorriso.

sabato 21 febbraio 2009

Operosità.

Una chiocciola pesa ogni passo,
protetta dal guscio delle sue convinzioni,
rassicurata dal luccichio del suo passaggio,
mentre falene brulicanti la scrutano,
infilzate dall'invidia per le api,
e dal desiderio folle della luce:
così tu, amore mio, marci sicura,
lasciandomi rimbalzare illuso fra i miei pensieri.


lunedì 16 febbraio 2009

Dietro al banco.

C'è molto clamore intorno a me, alla mia bancarella dove tutti i giorni, da cinque anni, dalla morte di mio padre, mi nascondo dietro montagne di frutta per far passare i miei giorni. Non amo molto parlare con gli altri commercianti, partecipare ai loro lazzi, alle loro rivalità, tuttavia il mio modo di fare attira molto clienti, o forse semplicemente è la qualità delle frutta che coltivo, appena fuori dalle mura.
A volte, feroce, sento la nostalgia della mia vita di prima, delle battaglie, di quando portavo lo stendardo dei miei ideali in giro per il mondo, di quando non mi facevo domande. Ero un soldato, un soldato del mio paese, servivo uno dei più grandi generali del mondo, e per il resto non c'erano dubbi fra la mia spada ed i miei nemici.
Ora la gente continua a correre, strane sensazioni mi pervadono, ma fuori il sole di questo inizio di primavera è cocente, sotto la mia tenda mi sento protetto: meccanicamente porgo delle mele alla servitrice di una grande famiglia, il suo sguardo rivela la voglia di parlare, ma il freddo che invade i miei gesti bastano a distoglierla.
E' il gelo che, lo so ormai bene, precede sempre il ricordo di quel giorno. Un'azione secondaria, volevamo una vittoria facile, quasi per scacciare la noia di quella fase di stallo. Avevamo scelto come obiettivo una cittadina: poche case, una vita tranquilla, ordinata, che fluiva lenta, al riparo delle montagne. Forse fu proprio per questo che incontrammo una resistenza superiore alle attese, come se stessimo scardinando un meccanismo perfetto. E allora fu la rabbia: uccisi gli uomini, visti e contati i nostri morti, non ci trattenemmo più. Dopo ore di saccheggio, stanchi, tremanti per la rabbia, ci allontanammo lasciando dietro di noi un cimitero di fiamme. In quei momenti non provavo nulla, ero svuotato di ogni idea ed energia, provavo ondate di odio e di repulsione per me stesso, e in fondo speravo in una punizione feroce.
Ma lui, il nostro generale, che avevo sempre idolatrato, venuto a conoscenza dei fatti atroci, non disse nulla, si limitò a scrollare le spalle, e proseguì con i suoi piani di onnipotenza.
Quella notte, appena seppi della decisione del mio generale, abbandonai per sempre l'esercitò: nessuno mi venne a cercare, la mia fedeltà e ciò che avevo fatto bastava a scoraggiare anche i più ottusi funzionari.
Tornai a casa cambiato, quasi ammutolito ed ingrigito: per fortuna non ebbi il tempo di pensare, la morte di mio padre aveva alterato anche il sorriso pieno di dignità di mia madre, e così incominciai a lavorare, ferocemente, per non pensare.
All'inizio amavo il lavoro in campagna, e odiavo le attese sotto il tendone del mercato: quella gente era così simile a quelle che avevo ucciso, violentato e violato, mentre la terra accoglieva ogni mio colpo di zappa con pietà, quasi a voler farmi dimenticare. Poi col tempo, l'abitudine ha avuto la meglio, ma oggi la gente è inquieta ed anche io non riesco a dimenticare.
Con uno scatto mi alzo da dietro il banco, mi infilo fra la folla, finchè vedo un mio vecchio compagno, uno di quelli che era con me: mi guarda stravolto, quasi non mi riconosce da dietro il suo elmo da generale, poi mi afferra per il vestito, io sono spaventato e mi dice " L'hanno ucciso, l'hanno ucciso...", poi si accascia al suolo. Alcuni lo soccorrono, io invece avanzo, forse non voglio capire, non riesco ad analizzare la situazione, non riesco a contare mentalmente i fatti, a disporli in ordine come faccio con i miei ortaggi, finchè non vedo un uomo calmo fra la folla, e le sue prime parole mi attraggono" Amici, Romani, cittadini, prestatemi orecchio,io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo.............."ma poi le lascio sfumare, sento velenosa la promessa mascherata di una nuovo guida, un uomo nuovo che da solo decida per tutti, e allora mi allontano dalla folla, in direzione ostinata e contraria.