C'è molto clamore intorno a me, alla mia bancarella dove tutti i giorni, da cinque anni, dalla morte di mio padre, mi nascondo dietro montagne di frutta per far passare i miei giorni. Non amo molto parlare con gli altri commercianti, partecipare ai loro lazzi, alle loro rivalità, tuttavia il mio modo di fare attira molto clienti, o forse semplicemente è la qualità delle frutta che coltivo, appena fuori dalle mura.
A volte, feroce, sento la nostalgia della mia vita di prima, delle battaglie, di quando portavo lo stendardo dei miei ideali in giro per il mondo, di quando non mi facevo domande. Ero un soldato, un soldato del mio paese, servivo uno dei più grandi generali del mondo, e per il resto non c'erano dubbi fra la mia spada ed i miei nemici.
Ora la gente continua a correre, strane sensazioni mi pervadono, ma fuori il sole di questo inizio di primavera è cocente, sotto la mia tenda mi sento protetto: meccanicamente porgo delle mele alla servitrice di una grande famiglia, il suo sguardo rivela la voglia di parlare, ma il freddo che invade i miei gesti bastano a distoglierla.
E' il gelo che, lo so ormai bene, precede sempre il ricordo di quel giorno. Un'azione secondaria, volevamo una vittoria facile, quasi per scacciare la noia di quella fase di stallo. Avevamo scelto come obiettivo una cittadina: poche case, una vita tranquilla, ordinata, che fluiva lenta, al riparo delle montagne. Forse fu proprio per questo che incontrammo una resistenza superiore alle attese, come se stessimo scardinando un meccanismo perfetto. E allora fu la rabbia: uccisi gli uomini, visti e contati i nostri morti, non ci trattenemmo più. Dopo ore di saccheggio, stanchi, tremanti per la rabbia, ci allontanammo lasciando dietro di noi un cimitero di fiamme. In quei momenti non provavo nulla, ero svuotato di ogni idea ed energia, provavo ondate di odio e di repulsione per me stesso, e in fondo speravo in una punizione feroce.
Ma lui, il nostro generale, che avevo sempre idolatrato, venuto a conoscenza dei fatti atroci, non disse nulla, si limitò a scrollare le spalle, e proseguì con i suoi piani di onnipotenza.
Quella notte, appena seppi della decisione del mio generale, abbandonai per sempre l'esercitò: nessuno mi venne a cercare, la mia fedeltà e ciò che avevo fatto bastava a scoraggiare anche i più ottusi funzionari.
Tornai a casa cambiato, quasi ammutolito ed ingrigito: per fortuna non ebbi il tempo di pensare, la morte di mio padre aveva alterato anche il sorriso pieno di dignità di mia madre, e così incominciai a lavorare, ferocemente, per non pensare.
All'inizio amavo il lavoro in campagna, e odiavo le attese sotto il tendone del mercato: quella gente era così simile a quelle che avevo ucciso, violentato e violato, mentre la terra accoglieva ogni mio colpo di zappa con pietà, quasi a voler farmi dimenticare. Poi col tempo, l'abitudine ha avuto la meglio, ma oggi la gente è inquieta ed anche io non riesco a dimenticare.
Con uno scatto mi alzo da dietro il banco, mi infilo fra la folla, finchè vedo un mio vecchio compagno, uno di quelli che era con me: mi guarda stravolto, quasi non mi riconosce da dietro il suo elmo da generale, poi mi afferra per il vestito, io sono spaventato e mi dice " L'hanno ucciso, l'hanno ucciso...", poi si accascia al suolo. Alcuni lo soccorrono, io invece avanzo, forse non voglio capire, non riesco ad analizzare la situazione, non riesco a contare mentalmente i fatti, a disporli in ordine come faccio con i miei ortaggi, finchè non vedo un uomo calmo fra la folla, e le sue prime parole mi attraggono" Amici, Romani, cittadini, prestatemi orecchio,io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo.............."ma poi le lascio sfumare, sento velenosa la promessa mascherata di una nuovo guida, un uomo nuovo che da solo decida per tutti, e allora mi allontano dalla folla, in direzione ostinata e contraria.
lunedì 16 febbraio 2009
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