lunedì 29 dicembre 2008

Guidando.

Cambi i paesaggi che inquadri dal finestrino
secondo la rapsodia delle marce del tuo animo:
li rallenti in una placida estate,
a strappi cerchi la velocità singhiozzante dei temporali.
Valli accoglienti di cui non desideri la fine,
ponti e persone sospesì,
pura proiezione di ciò che sei al momento:
comunque non fanno domande,
ti accolgono senza pretese,
file temporanei dei tuoi ricordi,
mentre scorri da aspettative non realizzate
ad altre da consumare,
e sotto di te la strada sorniona si allunga,
a proiettarti orizzonti impossibili.

mercoledì 26 novembre 2008

Passante.

Il sole disegna ogni giorno un'ombra un pò più curva,
rallenta l'incedere di cappello e soprabito d'ordinanza,
indaga con la curiosità animale dei giovani la vecchia cartella lisa,
in cui non ci sono che poche foto ingiallite:
tutti i giorni si vede inscenare la solita commedia,
col sorriso trepidante di dover chiedere scusa,
pensionato che continua a recarsi al lavoro dei suoi ricordi.

martedì 25 novembre 2008

Se sono rimasti a posto persino i sassi nei vostri viali.

Sentirmi me stesso, separato e diviso dagli altri, forte della mia identità calda e liquorosa: il timore dell'aria improvvisamente fredda che avvertivo per la prima volta, la mancanza della non esistenza e delle non sensazioni mi accompagnavano, mentre perdendo e acquistando continuamente sbuffi di non individualità rotolavo lungo la colata lavica. Enorme la curiosità, il tentativo di espandersi sempre, la terra che da una macchiolina lontana diventava grumosa e spaventata sotto di me, sotto di noi: già il primo cedimento, già tornavo a confondermi con la massa uterina che devastava il fianco del vulcano.

Altra violenza, calore sudore: il colpo di piccone che mi ha riportato in vita è stato violento, senza mediazioni, immediato e freddo. Lo aspettavo trepidante, dopo che per lunghissimo tempo alcune minuscole particelle di me avevano conservato il ricordo di quel sole annerito, del freddo, della paura dell'albero che avevamo inglobato. Coccolato dall'uniformità, viziato dall'assenza di decisioni da prendere, di responsabilità e di scoperte avevo contemplato quei ricordi come un refolo di identità e di diversità. Ora ero di nuovo io, rinforzato dalle mani dell'artigiano che mi creò limitandomi e dandomi certezze, squadrandomi con pochi colpi netti e gettandomi poi in un carro con molti miei simili, cubi rosati che fremevano curiosi.

Di nuovo l'immobilità per anni: incastonato in una strada, vivo in modo latente. Vedo scorrere la vita sopra di me, non vi posso partecipare e forse neppure vi voglio. Altra cosa è vagheggiare un'identità protetto da un'uniformità inglobante, altra cosa ben diversa è strapparsi dalla massa, agire in prima persona, assorbire solo su di sè i colpi dei carri, dei sandali, masticare il sudore della vita di tutti i giorni. Meglio cercare l'appoggio di altri, scaricare le pressioni tutti assieme, lasciare che sia la massa a prendere le decisioni, rifuggirle per la paura di perdere la propria geometrica perfezione. A volte la mia individualità, spinta forse ancora dal fuoco che ci ha generato prende il sopravvento e oeso i passi sopra di me, voglio intuire se l'elasticità che vi imprimono è data dalla forza o dalla rabbia: la fame li rende rapidi ma poco potenti, l'opulenza mi soffoca, leggiadri i passi delle donne accolgo, mentre sfuggo le lance lucenti dei soldati. Ma tutti questi attimi di vita, di consapevolezza durano poco: a lungo andare il mondo reale mi spaventa, mi rende perplesso e mi rifugio nell'indeterminatezza soporosa della massa.

Il lancio, fatto con forza improvvisata, mi stupisce: anni, secoli mi avevano fatto sprofondare nell'oblio, oceani di vita erano passati sopra di me, diventato indifferente per lo spegnersi lento della fiamma della mia curiosità. Ora una mano mi afferra, mi scrolla di dosso la muffa dell'indifferenza e della noia, sento le bandiere, gli slogan, le grida, mi sento esposto come non sono mai stato, ho il dubbio che di nuovo non stia seguendo una mia decisione, ma è la rabbia che mi spinge, nell'arco che disegno ho la sensazione di essere finalmente compiuto, perfettamente realizzato, finchè mi abbatto, frantumando i miei sogni sugli scudi di plexigas dei privilegi eterni.

martedì 18 novembre 2008

Dalle mie montagne

Le nuvole sfilacciano
l'ombra del brulicare delle città,
confondono astute il desiderio e la paura di scendere,
scaldati dai dubbi che arroventano gelate certezze:
a volte fuggi, desideroso di umanità,
sempre torni ricoperto di impolverato sdegno:
ti illude il vento, che non gioca più con te
ma sempre più cinico,
di nuovo,
ti soffia giù.

sabato 18 ottobre 2008

Arrivare alla specchio.

Era la seconda volta che Paul si faceva la barba: stirandosi al massimo sulla punta dei piedi, arrivava a stento allo specchio. La prima volta si era tagliato tutto e sua sorella, di poco più grande l‘aveva preso in giro a lungo poi però gli aveva regalato una nuova schiuma da barba. Con quella un collage di articoli contro la guerra in Vietnam: proprio lo stile di sua sorella. Sempre con la testa persa in qualche strano progetto, in posti lontani: lui in quei giorni non sapeva nemmeno cosa era il Vietnam, il suo orizzonte era la strada piena di sole dove si affacciavano la casa dei suoi e dei suoi amici, ma soprattutto era anche la voglia di crescere e di andare, da qualunque parte, magari proprio con Mary..mah..erano bei sogni..e intanto si era di nuovo tagliato e rimase un attimo a fissare quel po’ di sangue che spariva nel vecchio lavandino.

Certo adesso non si tagliava più come una volta, pensò Paul mentre veloce si metteva la cravatta si faceva la barba: era nella sua stanza all’università, e quel giorno avrebbe avuto un importante colloquio di lavoro. Era per un importante gruppo finanziario americano, e sua sorella aveva avuto molto da ridire sull’eticità della scelta: quella parola era per lui quasi nuova, eticità era far bene il proprio lavoro, poi non è che lui poteva cambiare il mondo:intorno al piccolo tavolo della cucina si era discusso fino a tardi, si erano lasciati male, poi però lei gli aveva regalato un nuovo rasoio, con la scatola piena di etichette a favore di Carter contro Nixon: la campagna elettorale era prossima, ma lui era infiammato dalla possibilità del lavoro e soprattutto dal sorriso di Jane che lo aspettava subito dopo il colloquio.

Era un giorno importante, il più importante della sua vita (d’altronde glielo avevano ripetuto tutti da un bel po’) e proprio quel giorno si era tagliato di nuovo con la lama del rasoio, cosa che neanche quando era piccolo: guardò irosamente il rasoio, che lo fece pensare a sua sorella, che era tornata dal suo lungo viaggio in India per il suo matrimonio. Si erano incontrati il giorno prima, come erano sembrati diversi: lui e Jane pieni di vita, giovani e brillanti, lei precocemente stanca quasi impolverata da tutta la strada che aveva fatto, ma sempre con il gusto della battuta: ma ora basta, era tempo di incamminarsi lungo quella giornata piena di sole.

La mattina presto, nella sua cucina“ Guarda non ce la faccio più: il lavoro i bambini mia moglie, non ho neanche un attimo solo per me.. “perché non venite un week end qui, nella nostra vecchia casa: ce ne stiamo un po’ tranquilli…” “ ok sento mia moglie e ti dico, poi devo vedere il capo..” “ ho letto sul giornale che stai diventando importante..” “ sì ci stiamo espandendo, sai la sensazione inebriante di cavalcare un’onda di…” di cosa…?” “ di poter cambiare qualcosa: ti ricordi una volta ne parlavamo, ora con un clic sposto milioni di dollari e ..” “ e pensi che quello sia il cambiare qualcosa?.”ecco di nuovo quella sensazione, sua sorella lo spiazzava sempre, tutte le volte che lui pensava di aver raggiunto un punto di certezza c’era sempre un che di nuovo, un nuovo gradino da superare, in fondo fin da piccoli era il loro gioco preferito ” va bè non parliamone adesso ti richiamo dopo per…”

Era strano radersi con estranei: lui lì era fuori posto, non c’entrava nulla, ma ormai aveva imparato che certe cose in quel ramo delle prigione di New York non andavano ripetute troppe volte. La sua storia mal si accordava con i tatuaggi, con la ferocia, a volte solo con la povertà e con la lucida follia della gente che vedeva intorno a sé: capivano fin troppo bene, ma loro avevano vissuto ben di peggio della banale storia di un uomo che aveva perso tutto. Il lavoro ovviamente, perché chi altri avrebbe mai riassunto un manager che viola le regole in modo così prevedibile?. Lui era un peso medio, era esattamente uno come lui che cercavano per fargli scontare anni di fallimenti. La famiglia, sua moglie certo gli era vicina, però si era come irrigidita, tutta in difesa dei loro figli, tesa a garantire loro che non sarebbe cambiato nulla: per lui invece sarebbe stato un altro giorno pieno di regole e di umiliazioni, e per la prima volta non riusciva a vedere un orizzonte di fuga davanti a sé.

Questa volta arrivava allo specchio, che quella pazza di sua sorella aveva semicoperto di adesivi “ yes we can!: e lui questa volta aveva deciso di crederci, di lasciarsi trascinare in quell’altra folle avventura, e così da giorni, girava per le strade, accompagnava quella colta e stravagante donna di mezz’età in giro per scuole, supermercati strade. Non lo ammetteva, ma per lui era un’anestesia: la moglie si era allontanata, doveva pensare a se stessa, glielo avevano detto tutti, era giusto così: lui non aveva la forza di rifletterci, aveva paura di tagliarsi con la verità: meglio allora la sorella, che si stava accalorando in discussioni con la vicina di casa, fervente repubblicana? Scrollò il rasoio, si guardò: ci avrebbe pensato, non adesso, ma questa volta si sarebbe fermato a pensarci: cullandosi con questa idea, si avviò verso una nuova giornata, colma di punti interrogativi che lo avrebbero solleticato.

mercoledì 15 ottobre 2008

Entropia.

Le mani avide dei bimbi chiudono,
accarezzandoli, gli occhi dei vecchi,

specchi di memorie dubbiose,
tendono verso l'infinito le corde invisibili delle galassie

per scagliare la freccia del tempo nel cuore rugginoso di Dio,
bersaglio che sfuma nel profumo d'incenso della tua infanzia.

sabato 27 settembre 2008

S.

Mentre i soldati li cercavano, Burma pensava, spaventato, al colore intenso della cuffia di sua nonna: gli era sempre piaciuto, quel tocco arancione di giovinezza sbarazzina che incorniciava le rughe, ma ora spiccava pericolosamente intorno al verde marcio dell'erba fredda. I soldati avanzavano metodici, ma anche un pò distratti: saccheggiato il villaggio, placata la fame di violenza, sesso e sangue e soldi, solo le urla isteriche di un grasso sergente li spingevano ancora verso le ultime colline dietro di loro. Lì, fra quello ombra fredde, erano nascoste una decina di persona, scappata dalle casa più lontane, mentre già i fucili violavano il tranquillo scorrere della vita in quel paesino.

Eppure Burma i luoghi dove la storia viene cesellata li aveva sempre immaginati come solenni, un sottofondo di profumo di incenso, e di odore di vecchie e rassicuranti pergamene, mentre solenni uomini togati, in modo meravigliosamente distaccato, vergavano i mille affannosi tentativi della vita degli uomini che brulicava lontano da loro. Bè lì non era così: l'aria condizionata spazzava via ogni odore e profumo, i traduttori automatici freddi riportavano, in molte lingue ma senza sfumature, risposte che erano tutt'altro che certezze. L'uomo sotto processo, che parlava dall'altra parte del vetro antiproiettile, nell'ambiente asettico del tribunale dell'AIA, era apostrofato come un capo di stato, o un volgare assassino. Dipendeva dall'accento di chi gli si rivolgeva, dai suoi ricordi, da cosa aveva perso o guadagnato in quella guerra di oramai parecchi anni prima. Non assomigliava ad un mostro, come Burma si ricordava da certe immagini di propaganda, ma semplicemente c'era quella sensazione di assurda familiarità, un pò straniante vista la vicinanza, che si ha sempre con i volti che ci scrutano dai giornali, su cui lui e la sua famiglia avevano cercato, sempre più ansiosamente, di leggere il proprio destino.

" Bè sai quel viaggio all'AIA non me lo dimenticherò mai.." ne stava parlanda per l'ennesima volta alla sua ragazza. Lei non era molto curiosa delle sue origini slave, ormai annacquate dagli anni passati a Firenze. Glielo aveva detto subito, da quando il suo sorriso gli riempiva le ore, e aveva anche compreso, con naturalezza, i suoi genitori. La loro faticosa lotta per un pò di dignità, in un paese nuovo, che li vedeva come una minaccia e aveva cancellato con un tratto di penna tutto la lora vita, i loro lavori precedenti, aveva indurito i loro tratti, li aveva quasi resi più "riconoscibili", dio, quanto si era odiato, anni prima ormai, per quella parola. Bè lei nemmeno non gli aveva mai chiesto perchè si portasse dietro una piccola cuffia arancione, strappata dal sorriso di sua nonna dagli ultimi spari, quasi lenti e pigri di quella giornata ormai lontana. Ora invece, il mondo dietro le vetrine del bar era popolato dalla gente che danzava per sfuggire ai proiettili della pioggia: era in giorni come questi che i miagolii dei suoi ricordi, salivano con maggiore vigore dal sottoscala della sua memoria. " A cosa stai pensando?" mentre si chinava verso il suo sorriso, Burma penso che sì, forse con lei si poteva costruire qualcosa di sicuro, qualcosa con cui mettersi in salvo dal freddo e spietato antivirus della storia.

Su internet cercava febbrilmente, da quasi più di un'ora, le foto dell'ennesima guerra in una regione sperduta del Caucaso. Il cerchio alla testa gli rendeva le immagini confuse: le foto che vedeva, dal salotto della sua nuova casa, odorante dei giochi di sua figlia e del suo amore, entravano in conflitto con le immagini del passato. Allora come ora i sorrisi a denti stretti dei potenti circondati da modelle erano accostati alle mani rugose protese, ai sorrisi persi nei crateri dai bimbi, alle macerie della vita di un giovane uomo di fronte alla sua casa distrutta.
Si sentiva come trascinato in un vortice, strattonato fra l'estrema previbibilità di tutto ciò che sarebbe successo e la sua stessa inevitabilità, non si era mai sentito così debole ed impotente, istintivamente cercò con la mano la cuffia arancione, ormai sformata dal peso dei ricordi, ma trovò solo la manina preoccupata di sua figlia, che lo invitava ad uscire. Per un attimo si vergognò pensando ai suoi occhi rossi, poi vedendo la sorpresa dell'incanto in quelli della figlia, sorrise e scuotendo la testa, chiuse la schermata di Explorer e si allontanò con lei.

S come Storia, S come Slobodan milosevic, S come Sopravvivere, S come Resistere.

venerdì 29 agosto 2008

Post.

Appoggiato al profumo scricchiolante dell'erba appena tagliata
ti allontani dallo sfrigolio spietato del computer,
con braccia intorpidite

nutri il falò di foglie rugose
e pagine raggrinzite di internet.
Non è il rimpianto dei bei tempi andati
ma gli interrogativi sul futuro ti circondano,
schegge impazzite di file psichedelici.

lunedì 25 agosto 2008

Mare.

Imprigionato dalla cerchia delle bagnanti,
il vento mi ricorda il mare
che dal blu netto del giovane orizzonte
invecchiando scolora.
Vecchierel bianco e infermo
trascina
la paura della solitudine delle petroliere
la salsedine incattivita degli scafisti
i palloni gonfiati coi sogni persi dei bimbi,
fino ad annullarsi,
con un'ultima vibrante protesta,
nell'abissale conformismo democristiano
della spiaggia.

martedì 19 agosto 2008

Miei ricordi di viaggio

Questa è la storia di tre amici, di un cielo che è capace di mutare gli animi, dei sorrisi e delle città che ci hanno riscaldato con la loro bellezza, dei frammenti di vite e civiltà spezzate che ci hanno interrogato, della polvere, degli odori e della gente che ci ha indicato la strada.

Aarif, Fuad e Bilal sono tre bambini, sono una banda, sono un gruppo, sono una famiglia: ognuno di loro è madre, padre, nonno e sorella per tutti gli altri.
Si stringono l’un l’altro e cercano di rimanere vicini, di non perdersi nel flusso vorticoso di idee e merci, di tendoni che a stento trattengono trattative che vanno avanti dal mattino, di persone e muli che si spostano a vicenda, testardamente convinti ognuno di avere la precedenza, di angoli che ti attirano verso stradine laterali misteriosamente silenziose, chiuse alla luce ma aperte alla scoperta, per poi ripiombare, dopo una svolta, senza preavviso, fra grida odoranti di fretta e fra richiami vibranti di profumi, nel tentativo di evitare rigagnoli di provenienza indefinita e teste di animali con cui giocano i gatti, e di seguire i raggi del sole che a fatica riescono a infilarsi fra i sacchi di riso, pasta, datteri e spezie per accarezzare gli occhi velati di interesse di una donna, mentre pare che le mura e le porte tendano le proprie secolari fondamenta per cercare di trattenere lo splendore misero della medina di Fes.
Lo stesso brulichio assordante si aveva quando qui, nella prima università del mondo, si declinavano le opere dei filosofi e matematici greci secondo la legge del sole e dell’Atlante: ancora oggi, strette fra le botteghe e le moschee, si vedono antiche mederse che hanno ospitato i sogni intagliati dai libri degli studenti, nei cui cortili si sono accese passeggiate di discussioni su un passo controverso, ma oggi nessuno dei tre bambini saprebbe né leggerlo né tantomeno scriverlo.
Non hanno mai imparato, né glielo insegneranno mai: hanno capito presto di dover temere il pancione sporgente dalle fondine dei poliziotti, di dover sfuggire oscuri uomini neri, di poter cercare e far pagare ad imbarazzati turisti il pedaggio di un dyram, ma non sanno e non riescono a capire quale sarà il prezzo da scontare per il loro futuro, se riusciranno mai a diventare come quei mercanti, imprigionati nei loro negozi, da cui escono ed entrano soltanto saltando aggrappati ad una corda, oppure come quelli artigiani che costruiscono la propria vita assieme a quella degli oggetti che modellano con mani pazienti. Spesso a volte, di notte, sognano di partire, di lasciarsi alle spalle una vita da gatti, ma le mura della medina, alla luce cruda del giorno, appaiono così difficili da superare…….

Hisham, invece, guarda con impazienza a Fes e al suo futuro: è in campeggio nel posto più paradossale del Marocco, a Ozoud, dove le cascate sono come una ragazza vivave che porta il sorriso fra monotone e barbute colline.
Disteso sotto gli alberi guarda i suoi amici, sente che la loro amicizia è solida come quelle piante, come i loro i suoi denti sono intaccati dall'acqua dei poveri, ma la sua mente è assediata dagli studi fatti, che stanno scavando un fossato fra lui e gli altri: la sua intelligenza, le sue letture, come le scimmie dispettose che spesso rovesciano le loro cose, e frugano con curiosità fra i loro averi, lo spingono a criticare, a cercare di aggirare o di pungere, almeno, l’argine eretto dalla legge regale del silenzio. Vede il suo paese in bilico, lo vede come quei tronchi che spesso paiono esitare prima di precipitare nelle acque ribollenti che li aspettano, avverte la forza e l’orgoglio che arrivano da un passato grandioso, i cui echi sono possenti ancora oggi come lo scroscio delle cascate, però percepisce anche l’oscillare quotidiano fra la tentazione di rifugiarsi sotto un burqa, e la resa incondizionata al Mac Donald’s, fra la legge di Allah e quella del mercato, fra i racconti dei padri e ciò che si scarica da internet, avverte la contraddizione di cui è parte e l’impossibilità di individuare una soluzione, poi voci amichevoli lo riportano a galla come dopo un tuffo troppo spericolato e si avvicina, barcollante per il sonno e strattonato dalle scimmie dei suoi pensieri, agli amici per gustare il the alla menta come i loro padri, e i padri dei loro padri.

Samaah invece aspira all’acqua, come tutta la terra in cui vive: resiste con la sua famiglia, a Ouarzazate, in una casbah, ai confini del deserto, i cui tartari sono orde di turisti che senza ritegno marcano i loro passi pesanti sulle fragili costruzioni di argilla, fango e paglia che resistono ancorate nel deserto, un po’ come la gente che ancora ci abita, ma che rischia di essere lavata via dalle piogge sempre più sregolate e dal disinteresse. Samaah ama quella terra, la terra della sua famiglia, sa di aver bisogno di un ampio orizzonte davanti a sè, in cui rifugiarsi. Lo sanno tutti che è grazie o per colpa della sua testardaggine che vivono ancora nella casbah, sobbarcandosi viaggi faticosi su strade spesso solo un po’ più battute del deserto che paiono ancora violare, e compiendo continue riparazioni per arrestare l’erosione del tempo, per evitare l’insinuarsi strisciante e silenzioso della sabbia. Viste da lontano, le loro case paiono sorreggersi fra loro sulla collina, nello stesso modo rassicurante con cui lei e la sua famiglia, la sera, si stringono al terrapieno e contemplano il deserto di rocce che gioca per loro con il vento.

Vorrei ora, adesso lo stesso vento di grida, di amicizia, di spazi infiniti e di luoghi racchiusi, di vita e annichilimento per essere confuso e guidato.

Marrakech

Sorrisi dei bimbi che vendono sogni sintetici,
serpenti drogati che si contorcono, timidi, per una tua moneta,
profumi di cibo cotto dalle urla e dal sole,
calore che la folla amplifica
conscia di essere moltitudine onnipotente :
Jama‘a el-Fnaa vorace ti ingoia
strappandoti dal Palazzo al-Badi
che solitario e orgoglioso non cerca di trattenerti,
colmo di sconfitto fascino austero.


C'è chi l'amore lo sceglie per professione.

Statue d'ebano piagate,
gettate sui treni salati d'estate,
nel sonno sfuggono a mani protese

inanellate d'euro,
insultate dalla malizia con cui le ignoriamo.

venerdì 15 agosto 2008

Come una corda tesa

Finito il pranzo la perpetua guarda don Mario scuotendo la testa: vede la figura grassoccia e famigliare del prete con cui vive da più di trent’anni dirigersi non più verso la sua poltrona preferita, come di solito faceva, ma verso il computer. Il prete lo accende, con fare ancora insicuro, in fondo ha imparato ad usarlo da poco, mentre in modo pensoso accarezza un grosso volume rilegato in pelle un po’ lisa. La perpetua sa già come lo troverà il giorno dopo, ancora addormentato sulla sedia, con il libro, che ha scoperto essere il registro parrocchiale, vicino ed il computer ancora acceso, che ronza dolcemente vicino a lui.
E’ da un po’ di sere, infatti, che Mario naviga fra i nomi, quelli del passato che ha visto crescere e che vivono spesso solo più nei suoi ricordi e quelli del presente, registrati ormai direttamente sul computer, con cui parla e si confronta tutti i giorni.
Oggi, scorrendo distrattamente le pagine, cerca in modo quasi inconsapevole le prime note scritte su quel libro dalla sua vecchia penna stilografica, il regalo dei suoi genitori per il suo nuovo incarico da sacerdote. Le sue dita accarezzano una data in particolare: 13 dicembre 1944. Quel giorno le ultime unghiate della guerra lo avevano coinvolto da vicino. Lui era un giovane prete e anche se era arrivato da poco in quel paesello, ben presto aveva sentito parlare di un pugile, Maurizio, una vera e propria leggenda locale, l’uomo più forte delle Langhe, dicevano.
Ebbene il giorno in cui i fascisti erano venuti a prendere il padre di Maurizio per portarlo via, per fucilarlo o per torturarlo, suo figlio, quell’uomo enorme che da tempo non subiva una sconfitta sul ring, non aveva esitato ed era subito corso in suo aiuto. Tuttavia era disarmato e i suoi grossi pugni non erano riusciti né a stringere né a fermare le pallottole che lo avevano crivellato. Non più si erano uditi gli urrah del suo pubblico, mentre ancora ogni tanto nella memoria e nella mente di Mario risuonano questi interrogativi: avrebbe potuto fare qualcosa, non aveva avuto il coraggio di frapporsi oppure aveva semplicemente evitato una vittima in più inutile?
E’ da un po’ di tempo che sono queste le domande che si affrontano nella sua mente: da una parte gli eserciti ordinati delle idee quotidiane, delle mille incombenze da svolgere, dall’altra la guerriglia scaltra dei dubbi e degli interrogativi.
Non vuole stendere bilanci, a quelli ci pensano gli altri, cerca di estrarre un significato da ciò che ha fatto, di cercare il filo di Arianna, perchè è forte la curiosità di vedere cosa lo attende all’altro capo. Vista la sua abitudine, la sua propensione a confrontarsi con gli altri, vuole farlo andando a riannodare i ricordi delle vite che si sono intrecciate con le sue.
Forse il primo a mettergli in testa quest’idea è stato Giuseppe, un altro nome del suo librone, un suo amico fraterno. Aveva avuto una vita dura: il lavoro nella panetteria di suo padre, scelta impostagli dalla necessità di mantenere sé e la sua famiglia, il forte rimpianto per non aver mai potuto studiare, l’orgoglio feroce per la figlia, che era riuscita a laurearsi a Torino. Ma più di tutto era sempre stato grande l’amore per il suo paese, e per la casa che aveva costruito:ne era fiero, l’amava più della moglie, come Mario a volte bonariamente gli ricordava. Per Giuseppe non era solo una semplice casa di campagna, ma la prova che era riuscito a dirigere con mano ferma la sua vita fra i sacchi di farina, il calore feroce del forno d’estate, la sveglia ad ore impossibili. Il sacerdote socchiude gli occhi e capisce ora, forse meglio che in passato, ciò che voleva dire l’attenzione ai particolari dell’amico, la stessa che ora lui riserva ai dettagli della propria vita.
Lui non vuole chiedersi se ha costruito qualcosa; certo un nuovo oratorio, molte amicizie, l’affetto sicuro di qualche persona, ma rimane sempre un fondo di ansia in agguato al dì là nelle ombre della notte, che né la Bibbia né la tranquillità delle abitudini quotidiane riescono a rischiarare del tutto.

Altre ombre, invece, gli avevano allontanato tutta una generazione, i cui nomi, vicini fra loro, cerca sul vecchio registro quasi con riluttanza: Luca, Lorenzo, Martina e poi anche Chiara, Elisa e Francesco. Il fascino delle nuove idee che spirava dalle università di Torino alla fine degli anni Sessanta aveva allontanato i suoi ragazzi migliori, che tornavano al paese con parole, vestiti, musiche e sogni totalmente nuovi, che non comprendevano più né lui né ciò che lui rappresentava.
Quello era stato uno schiaffo molto forte al suo orgoglio: per la prima volta si era sentito in balia di forze più grandi delle sue. Il suo lavoro entusiasta ed indefesso con quei ragazzi non era servito quindi a nulla? Niente era rimasto nelle loro menti?
Certo, deve ammettere con un sospiro, mentre si sgranchisce le braccia, ora molti di loro sono suoi parrocchiani, ma tutte le volte che li vede non riesce a non provare il senso, anche se ormai latente, di sconfitta. E’ un po’ non voler ammettere di non riuscire ad incidere sulla realtà, lui che aveva scelto di fare il prete proprio per cambiarla. Ma poi si cambia la realtà? O i suoi sono solo sogni, solo un po’ diversi da quelli colorati di quei ragazzi?
Invece, e ora i suoi pensieri cambiano tono bruscamente, la sua vecchia amica Federica non era mai riuscita a leggere con chiarezza la realtà, soprattutto quando si trattava del suo unico figlio, Giacomo, dirigente molto influente di un’ASL locale: vedere i loro nomi sulla carta gli provoca sempre un po’ di smarrimento e di rammarico. Quando Giacomo era stato travolto da uno dei tanti scandali che periodicamente scuotevano la politica locale, lei, troppo fiera del figlio per ammettere che potesse sbagliare, era andata nel suo ufficio per distruggere i documenti che pensava potessero comprometterlo. Mario scuote la testa, ancora sorpreso in cuor suo da quella donna orgogliosa, un tempo di sicuro bella, che aveva vinto la riservatezza custodita all’ombra delle colline da lei tanto amate per esporsi in tal modo: e non riesce ad immaginarsi la sua reazione di fronte ai carabinieri che l’avevano sorpresa e denunciata. Ci doveva essere altro, oltre all’amore senza limiti per Giacomo: forse il senso di un rigore morale ed etico che si era allentato col tempo, inseguito ormai anche fra i vigneti da lei tanto amati dai lupi affamati dell’arrivismo sfrenato
Mario decide bruscamente che quegli interrogativi sono troppi per una fredda serata autunnale, e cerca calore nello schermo freddo del computer, che gli elenca una serie di nomi, alcuni dei quali per la prima volta di extracomunitari. Sorride amaro quando pensa ai telegiornali che soffiano sul fuoco dell’atavica ed insopprimibile paura del diverso, lui stesso ha dovuto lottare contro pregiudizi che non credeva si nascondessero in lui. Forse in questo campo è riuscito a migliorare qualcosa, anche se l’aiuto più grande gli è stato dato da Andrei e dalla sua famiglia, i cui nomi ora gli sorridono dallo schermo. Andrei è arrivato, come muratore, in quel piccolo paese durante l’alluvione del 1994 e la sua dedizione, la sua infaticabilità hanno dato la prima spallata al muro di ignoranza reciproca: sorride quando pensa a rumeni e langaroli coperti dal fango, indistinguibili, uniti dalla stessa fatica e dalla stessa urgenza.
E’ stata l’ennesima volta in cui Mario ha visto la sua gente dimostrare di saper lottare fino in fondo, anche se alcune sere, la sensazione straniante che avvolge l’anziano sacerdote è quella di una corsa il cui fine, il cui scopo ultimo gli è ignoto.


http://it.wikipedia.org/wiki/Mombasiglio

giovedì 24 luglio 2008

Ricordi di viaggio

Ricordo ancora le mura di Troia
e l’inganno con cui caddero,
in quella guerra decisa da mercanti,
narrata da eroi.
Credevo nella spada che facevo mulinare,

vinsi piegando gli scudi con la mia astuzia,
ma ben presto vidi

che avide menti
si avventavano sulle rovine fumanti.
Non avevo lottato, sacrificato
l’infanzia di mio figlio,
la vecchiaia di mio padre
e la bellezza di mia moglie
solo per far sì che le merci greche

arrivassero a Xandù.
Nella mia isola si aspettavano un trionfatore,
videro un relitto:

solo io fra tutti volli comprendere,
ma la scoperta incatenò
la mia mente a troia,
alla città preso con un inganno
per un altro inganno.
Poi qualcosa cambiò: arrivò un uomo, portato dalle onde,
disse di essere uno scrittore:
aveva vagato nel mediterraneo,

le muse lo avevano portato lì,
o forse la fame,

o la tempesta:
il padre lo irrise,
come poteva un eroe senza fiamma illuminare un’opera d’arte,
ma mio figlio lo spinse verso di me,
ultima speranza.
Gli raccontai la mia storia,

la verità
il cui aspro odore
non mi faceva dormire,
capì ed ammise,
dopo vari fiaschi di amicizia
di averlo sempre saputo,
ma disse che al pubblico non sarebbe piaciuta,
perché pensare? se la causa è giusta
e chiedersi chi custodirà i custodi?
E così mi vendetti di nuovo,

per comprarmi un futuro di oblio,
e violentai i miei ricordi:
lucidi armi
di fattura unica
sostituirono merci invendute,
combattimenti gloriosi furono cantati
al posto di massacri ingiustificati,
le avide menti furono sostituite
da dei maestosi:
e fu gloria per entrambi,

per il poeta e per l’eroe,
che di nuovo,
beffarda catarsi,
ingannava ed era ingannato.
Il pubblicò impazzì,
nel vedere riflessa nella gloria
la propria vita di tutti i giorni
tinte preziose su un intonaco squallido.

Il successo fu così grande

che inventai il seguito,
il viaggio fantastico:
e così le donne dei pescatori
divennero le sirene,
un vecchio re il feroce polifemo,
ingenui isolani i lestrigoni
banali compravendite gesti d’astuzia; .
le avide menti pagarono bene l’illusione collettiva:
e fui famoso, molti dissero che avrei varcato i secoli,
io Ulisse, figlio di........... (non voglio macchiare il nome di mio padre)
che avevo varcato tutti i mari,
con l'inganno e con la fantasia.

Incontri di viaggio.

Guarda Colombo che vola sulle onde,
sulla rotta decisiva,
a scoprire il continente che non battezzerà,

che porterà vite e guerre,
i Kennedy e gli Allende,
il petrolio e il tabacco,
sogni infranti
di regni e di uguaglianza,
il libertator e i conquistadores,
la terra del fuoco e N.Y:
lui lo lambirà soltanto,

lo traviserà,
portato dalla Santa Maria,

benedetta da vescovi, condotta da galeotti.
Guarda l’altro legno
che si accosta
nello sciabordare della storia,
non chiedere perché,
non come,
ma osservalo
stinto da mille tempeste,

dalla fatica di avanzare:
gli equipaggi dormono,

sognano la casa,
le mogli belle e desiderate,

e forse pensano di incontrarsi,
così come l’ammiraglio e il guerriero astuto,

gli occhi dell’uno in quelli dell’altro.
“ chi siete?” chiede C.
“ chi sono io?" risponde U.

"Se ti rispondo, scoprirai chi sei tu:
vengo da lontano,
da glorie passate,
non so più se vissute o inventate,
non più importa,
già vecchio decisi di andare,
avidi menti
volevano ancora sfruttarmi,
le rifiutai,

rinnegai finalmente l'astuto poeta,
partii con pochi compagni,
e ora navigo, navigo..

“ cosa ti spinge,
ti strappa dagli ultimi tramonti di quiete?”
“ A tre dee sacrifico nella mia vecchiaia:

alla lotta, alla ricerca, alla costanza:
superare il limite è la mia meta,
è una spallata contro il muro dell'apatia,
è una vittoria che si tramuta in sconfitta,
ma che per quanto poco duri ti dà sollievo”
“Io cerco un’isola, al mio viaggio anche
sono interessate regali menti,
ma non me ne preoccupo.
Ormai troppo angusto, soffocato dal passato
è il Mediterraneo,
ogni sua onda è inquinata dalla storia:
cerco nuove vie, una nuova speranza, nuovi orizzonti,
l'assenza di limiti per tutti,
per questi uomini dell’equipaggio, costretti a remare,

loro pensano verso il nulla,
e a volte penso che la ragione fatichi con loro….”
U. “ solo se lo pensi
poi trovi il nulla...
Io credo in terre forse abitate,
magari libere da uomini,

che ci aspettano:
forse noi non le vedremo,

cadremo prima nel tentativo,
ma se non ci provassimo
non saremmo uomini,

ma tavole di legno incosapevoli,
di cui il mare fa ciò che vuole.."
“hai ragione, continuerò, insisterò:
forse ho capito, seguirò il vento
che viene dall’Europa, che porta credo all’asia, al Katai,…

e invece la tua rotta?”
“ io andrò verso l’africa,
dove sono i leoni,
dove sono arrivati in pochi e pochi sono tornati
ho saputo che c’è un’alta montagna,
lì mi dirigerò…..”

domenica 20 luglio 2008

Stamattina

Sfuggito al vuoto,
che ancora mi seduce languido,
lo scaccio
col caffè fumante del tuo sorriso
.

Ieri sera

In equilibrio sulla tensione,
frenando la volontà di cadere
aggrappato ai tuoi occhi
annaspo alla ricerca
di ciò che dispero di non afferrare.

venerdì 18 luglio 2008

Estate.

Lunghi pomeriggi
diluiti all'ombra di porose certezze rinfrescanti,
sospesi fra pulviscolari punti interrogativi.
Il caldo che ti respinge è la vita che sprechi:

vanamente la insegui olte le porte a vetro che tagliano l'aria,
il pedaggio da pagare per il gelo del supermercato
è il sorriso dimenticato del sole che ti insegue.

Chat.

In una piazza anonima, i cui unici segni distintivi erano strani lampioni circolari, un uomo ed una donna si scrutarono sorpresi.
L’imbarazzo, la timidezza, così diversa dagli incontri virtuali li bloccò ad un ruolo convenzionale, di incontro d’affari fra amici poco calorosi “ ciao tu sei andrea” “ sì e tu mara, come va?” “ bè oggi fa un po’ più freddo del solito…” “ e appena ci vedremo sentiremo che ciò che unisce ci spinge l’uno verso l’altro, non ci sarà bisogno di parole, ci capiremo senza nemmeno respirare…”: si guardarono e videro negli occhi degli altri quello che pensavano fosse desiderio, quel desiderio di cui avevano così a lungo parlato, desiderio che per loro non era conciliabile con l’amore, per cui non avevano tempo, solo un breve incontro per scaricare le tensioni, sentirsi soddisfatti, pensarono amaramente entrambi, ora che si trovavano lontani dagli schermi stranianti ma protettivi dei computer, le loro emozioni sembravano essere più trasmissibili facilmente tramite il modem “ vedi sono stato sposato, ma poi ci siamo lasciati, senza figli, ma soprattutto senza niente più da dirci, non poteva durare così, eravamo entrambi sempre fuori, e scaricavamo in casa quell’aggressività che dovevamo inghiottire fuori, o almeno canalizzarla, e non so cosa cerco adesso, forse un incontro, magari uno solo, con una donna che mi piaccia veramente..” lui, ricadendo nel suo ruolo di perfetto ed infallibile organizzatore, disse che aveva prenotato una camera, e le chiese, arrossendo per l’evidenza di quella domanda, se voleva salire o fare prima quattro passi per conoscersi meglio, e sperò, contrariamente a quanto aveva sempre pensato, che scegliesse una passeggiata: lei sentì lo stesso desiderio, bisogno di intimità disperata “ non sono mai stata sposata, ho avuto qualche storia con dei miei colleghi, ma niente di importante, e adesso non cerco nessuno con cui recitare stupide frasi d’amore, ho solo bisogno di sentire del calore contro il mio…”,ma pensando di non poterselo permettere, gli chiese di salire subito nell’hotel, e si sentì quasi una puttana, e avvertì la stupidità per l’evidenza e quasi l’aspettativa di quelle parole e per consolarsi, lo analizzò criticamente e vide che era un po’ più vecchio di come pensava, più curvo, quasi grigio “ sono ancora giovane, cerco di mantenermi in forma, anche se forse sono le preoccupazioni a rendermi più vecchio, a farmi invecchiare..” “ forse per me è la solitudine, non ho mai avuto il coraggio di guardare veramente con coinvolgimento, partecipazione, le persone che erano intorno a me al di fuori del mio personale interesse, di quello che mi potevano servire..”“ …persino con i miei genitori, ormai li ho collocati in un istituto per persone anziane, e vado a trovarli ogni tanto la domenica…” ma ormai le doveva piacere, tirarsi indietro avrebbe voluto dire pronunciare delle parole, e di quel momento si sentiva come bloccata: i due si diressero verso l’albergo, superando poche case scarsamente illuminate, con pochi viandanti che si muovevano, una coppia veloce che si affrettava, chiusa nella bolla dei loro pensieri, lui leggermente indietro che sembrava sognare un passato o un futuro felice, lei davanti, più distante quasi a volersi nascondersi nei fiocchi di neve che stavano incominciando a scendere: entrambi li invidiarono, anche se “ però ci incontreremo solo per, per….” “ per riscaldarci un po’..” “ esatto, non andremo al cinema assieme, voglio dire, niente cose che ci possano sottrarre la nostra indipendenza..” “ o il nostro tempo..” ma si riscossero, in quanto quasi travolti da un ragazzotto foruncoloso che era uscito con un rossore arrogante da un portone e che in bicicletta ora si allontanava veloce, per sfuggire alla neve o forse solo al fiore di noia che aveva colto.
Osservavano tutto ciò intorno a loro, anche perché non riuscivano a sostituire il linguaggio virtuale con quello vero, entrarono veloci, quasi ora avvicinandosi, forse per inerzia, ma di nuovo separati ora dalla chiave maliziosa consegnata dal portiere assonnato sotto il berretto illuminato dalle luci dell’ingresso, la donna per sottrarsi allo sguardo inquisitore si avvicinò con una sorta di stanchezza all’ascensore, lui la osservò nell’atrio vuoto e vide che non era “ bella e desiderabile, così ti immagino, ricca di fascino, non certo di quello delle ragazzine, ma l’esperienza, l’abitudine ad una vita solitaria, imponente come una nike della solitudine” forse tutto ciò c’era stato, una volta, ma ora quella fierezza da lui immaginata, si era come appesantita, forse perché ormai diretta per altri scopi che non fossero quelli della cura di sé, però era ancora piacente, si convinse a pensare.
Entrati nell’ascensore, l’atmosfera di imposta famigliarità spinse l’uomo ad accarezzarle i capelli, dapprima con lentezza quasi timoroso della reazione della donna, ma il suo sorriso lo spinse ad andare avanti “ e quando toccherò i tuoi capelli sentirò di averti raggiunto, di aver carpito ciò che sei, e all’inizio sarà importante anche solo questo, un semplice, lento scivolamento dei tuoi capelli fra le mie dita, una lieve pressione che indicherà non un senso di possesso, sarebbe troppo impegnativo, ma solo la gioia di vederti di persona” , a scendere lungo la giacca leggermente spiegazzata, che lei quasi con un senso di vergogna, si aggiustò, il sorriso tuttavia perdurava, anche se adesso come sospeso, e lei sentì che lui doveva fare qualcosa, ma se fosse stata la mossa sbagliata se ne sarebbe andata, infischiandosene di quella strana storia, lei non avrebbe mai immaginato di poter diventare così, voleva che lui compisse un’azione da….non sapeva, doveva essere lui a fare, sentiva la necessità di abbandonarsi “ e quando avrò il bisogno di sentirmi protetta allora verrò da te” si ricordò di quando aveva scritto quella frase, ma non l’aveva mandata, non voleva che quel momento di debolezza, nell’appartamento in cui si propagava come unico suono il lento respiro di suo padre, il ronzio del computer, a sottolineare impietoso che la vita era ormai lontana da lì, ma ora non le importava, chiuse gli occhi in attesa, ma lui non seppe mai il pericolo scampato, si salvò o si rovinò grazie a una coppia che era entrata con una bambina a cui entrambi sorrisero, contenti di distrarsi da se stessi con quel nasino tutto raffreddato che rappresentava l’innocenza da loro persa, e che stavano per perdere per sempre: superato il momento di imbarazzo entrambi sentirono di doversi avviare, retrocedere era ormai impossibile, si avviarono verso la porta verde, quasi natalizia nella sua serratura d’oro finto: entrarono, l’uomo chiuse la porta, la chiuse a chiave, quasi per guadagnare ancora tempo, poi si voltò “ saremo soli ed io ti desiderò, non avrò bisogno di spogliarti in fretta, come amanti alla prima avventura: ci conosciamo già.. “ io riesco a vederti, vedere il tuo corpo, e sono sicura che non proveremo la minima esitazione…” e la vide così vicina che fu spinto ad accarezzarle il volto, per un momento entrambi dimenticarono i giudizi di poco prima, i commenti che magari avrebbero fatto con gli amici o con una bottiglia di vino caddero come le giacche, ma subito fu evidente la stranezza perché le loro lingue si intrecciavano, si rifugiavano l’una nella bocca dell’altro, ma quelle stesse lingue non avevano mai parlato veramente, quelle lingue erano terribilmente vere, quelle di internet solo false, e ora si legavano, ma come rallentate: forse non se ne vollero rendere conto, si spogliarono con avidità che scambiarono con passione, e paragonavano i corpi che incontravano con quelli descritti, immaginati, esaltati “ ci siamo già descritti fino all’esaurimento, ora penso che possiamo trovarci, incontrarci di persona….” Con quella richiesta, che ad elaborarla di persona, ci avrebbe messo secoli ora era lì, pensava lei a stringersi quell’uomo, a cadere insieme a quel letto, a rimanere nudi, pensava lui, a cercare di strappare un po’ di piacere, a scendere fino a confondere i suoi capelli con i peli del suo sesso, a cercare di comportarsi come suggerivano in quelle riviste da aspiranti marines-uomini-d’affari-calciatori, a cercare di allungarsi, stirarsi in modo provocatorio, proprio come voluto dal suo settimanale preferito, lei non si tolse l’orologio, lo levò a lui rivelandone il tatuaggio involontario che vi rimaneva, quasi un simbolo di schiavitù, rimase lì, ad osservarli, a scandire il tempo mentre lui si stendeva sopra di lei “ e quando ti avrò allora sarò sicuro che tutto questo tempo non è passato invano, che con te sarò riuscito a rendere completa una vita non così…” “ soddisfacente? Non ne sarai il centro, ma di certo un…diversivo…” un diversivo non lo aveva scritto, ma ora la verità di quella parola gli si presentò davanti, stava facendo l’amore con un diversivo?, mentre lei era sempre più impassibile, l’orologio, che vedeva fra i capelli dell’uomo che abbracciava le ricordava il tempo che avrebbe potuto trascorrere meglio, lavorando, leggendo, guardando la tele, parlando con suo padre, e di solito questa azioni che le sembravano inutili, nella stanchezza eterna che di nuovo la prese le sembrarono desiderabili, la situazione stava diventando assurda, costretti, inchiodati su quel letto dalla forza delle convenzioni che li spingeva a piegarsi l’uno sull’altro, quando il telefonino che squillò imperioso, a ricordare il mondo di fuori, li fece sobbalzare, e non seppero se era lei che lo aveva spinto con una forza millenaria fuori, o che lui con orgoglio e vergogna di secoli l’aveva lasciata, ormai erano entrambi inerti, incapaci di piacere “ e quando raggiungeremo l’orgasmo insieme sarà stupendo, riusciremo a capirci di più così, che parlando per ore” “ cercheremo insieme di rendere questo incontro indimenticabile…” lui avrebbe voluto mormorare piccole ed assurde parole di scuse, lei di fargli capire che non pensava che la colpa fosse sua, anzi, ma che dovevano riprovare, magari partendo da altre basi, ma si chiese perché con quell’uomo che conosceva a stento, che giaceva vicino a lui, ormai nuda, il suo impulso di coprirsi, legato alla vergogna iniziale, si era dissolto, aspettava una parola, ma vedeva solo quel corpo, disteso nudo, per averlo pensava potesse bastare quella camera squallida, quel letto che adesso rivelava in pieno la sua natura volgare, come aveva potuto pensare che una cosa del genere la avrebbe soddisfatta "e dopo forse parleremo di noi, oltre a quello che avevamo già detto, di ciò che proviamo dopo, della prospettiva diversa ”
Continuavano a rimanere in silenzio, poi ebbero lo stesso pensiero, si protesero verso i cellulari, frugarono, ora buffamente inginocchiati, nei vestiti non troppo piegati, come se incisi da una passione insufficiente, ma ancora troppo lontani, riemersero le osservazioni di prima, le spietate osservazioni fatte da chi come loro non si getta più nei sentimenti, ma li osserva con un sorriso dissacratorio in faccia, ma entrambi non avevano ricevuto chiamate, il trillo era uno stupido messaggio di sport arrivatogli, che parlava del campionato di baseball americano, rimasero lì seduti per terra, continuavano a non parlare, lentamente si rivestirono, quasi aiutandosi a vicenda, e forse provarono più piacere, per assurdo, nel fare ciò, ma era solo il desiderio di rientrare nei loro soliti ruoli, la fretta, che li prese, di legare i bottoni, annodare cravatte, tirare cerniere: ormai rivestiti rimasero davanti, senza dirsi niente “ e quando ci saluteremo il sorriso che ci scambieremo sarà la certezza che ci rivedremo, che continueremo a ricordarci di tutto ciò…” con una smorfia lei disse “ non ha funzionato, forse non era destino..” amaro “ già, abbiamo sbagliato, forse è meglio se per un po’ non ci sentiamo più” “ sì è meglio, lo penso anche io, anzi se vuoi che dividiamo il prezzo della camera….”
L’ultimo affronto alla loro intimità fu quella frase, che spinse entrambi ad uscire di fretta, si separarono nella via, quasi senza una parola che non fosse un ciao che restò nell’aria, lei si sentì quasi sporca, per analogia pensò ad uno stupro, ma come poteva pensare, l’aveva voluto, alla fontana si lavò con nervosismo le mani, il contatto con l’acqua fredda la rese più lucida, si alzò, scosse la testa e si allontanò verso casa, mentre vedeva la macchina di lui che sembrava sempre più piccola, lungo il viale in cui l’uomo subì le tentazioni delle prostitute, pensò di fermarsi, un prova della sua virilità ma si riscosse, il problema non era quello, voleva solo andare a casa ed il sorriso tinto di rossetto di una donna mimetizzata sotto un ombrello bianco, quasi un ombrellone, cui si avvicinò ma da cui scappò di nuovo fu sempre la cosa che associò a quella serata.

P come Paziente ( come Professore).

Atto teatrale.
Scritto con http://logomagheiros.blogspot.com/ anche se con una lieve differenza....

( giovane medico, in mano una cartella clinica, a fianco una barella con sopra un paziente e un infermiera)
I: Paziente di 82 anni, Alzheimer in terapia da 5 anni, iperteso, ieri caduta accidentale nella casa di riposo dove risiede, sospetta frattura di femore.
M: ma adesso che la vedo, lei è proprio il professor Riccardi, il prof di latino del liceo.
P : Perché sono stato così tanto lontano da Itaca, dalla mia sposa testarda…ho un forte dolore alla gamba…( pausa)…questa mai sorte, se solo fossi nata donna potrei dirmi Euridice nell’inferno insieme a Plutone.
M: ma tra tutti i problemi che ho, anche il mio vecchio prof che non connette più, beh , Francesca, vediamo di fargli un radiografia alla gamba e mandarlo a casa.
( P esce con infermiera. M rimane in scena, si guarda il cellulare, nessuna chiamata, sospira. )
M: ma guarda che mi tocca anche rivedere il prof Riccardi, non basta essere di turno alle due di notte in questo inferno? Euridice?...e inferno…peccato che io non sia Orfeo! Ma in fondo quando mai sono stato capace di fare Orfeo?.. con Pier?una litigata e mai una birra per chiarirci…..Giorgia? un amore sputtanato dietro al troppo lavoro….al mio idealismo come lo chiamava lei….che poi anche Orfeo in fondo ci credeva veramente? Mica pensava davvero che gliela avrebbero fatta portare fuori dall’inferno la sua Euridice?
Lo conoscevano, loro erano Dei e sapevano già che si sarebbe voltato…in fondo me lo dice sempre Marco che sono troppo fatalista! Ma non ho mai tempo neanche per pensarci, con tutti malati che mi tocca vedere in un giorno...Se con quella signora dell’altra sera, quella con quegli strani lividi al braccio avessi battuto un po’ di più…magari lasciando il marito in sala d’attesa a grugnire, non mi avrebbe raccontato la balla fin troppo scontata della scala…ma sono un medico o un prete?....eccolo che torna. Lui in fondo al liceo era un prete, tutte quelle prediche…ma cosa diceva? Le ho mai ascoltate? giocavo a fare il Jack frusciante. No…non potevo gia essere di corsa allora…forse pensavo solo ad altre cose, allora quelle erano le più importanti.
( ritorna P sulla barella con l’infermiera che lo spinge, scende si mette a camminare zoppicando)
M: stia sulla barella, professore, mi cade ed è pure colpa nostra questa volta…
P: Allora colta dal pungolo d’amore inviatole da Poseidone, Pesifae, moglie di Minosse re di Creta, si fece costruire dal geniale architetto Dedalo un giovenca di legno. In essa entrata, unì la sua carne a quella del toro e da questa unione partorì, atroce vendetta di Poseidone primo padrone del toro, il Minotauro. Minosse, scoperto il frutto dell’irrazionale unione lo rinchiuse e nascose alla civile Creta.
Ma un caro prezzo: cinquanta giovani fanciulle ateniesi ogni anno condannate a scender nel labirinto e non più vedere il volto della propria madre…
M: Francesca, portalo di là e fagli un calmante. Io intanto sento quelli della casa di riposo che vengano a riprenderselo.
( l’infermiera siede P e esce con lui. Il medico telefona, nessuno gli risponde. Posa il telefono, si siede e apre un giornale. L’infermiera ritorna, sola)
I: L’ho lasciato di la a Stefano, era così agitato!
M: certo che non cambia mai niente…..noi proviamo d intrappolare la violenza, la rabbia che ci costringono a mangiare ogni giorno, ma tanto esce, per forza guarda quanta gente che ci arriva ogni giorno senza niente in realtà, ma solo incazzata col mondo….vero ?
F: sì, e poi si sfogano soprattutto con noi. Come il rumeno dell'altro giorno, che si chiamava strano, che si era preso il dito in qualche macchinario...che mentre lo medicavo mi diceva che tutti gli altri che lavorano con lui in quel periodo erano in ferie, quindi gli toccavano troppe ore al giorno oltre a quelle che faceva in nero normalmente, e ce l’aveva col capo che lo fa lavorare troppo, con i colleghi che ognuno pensa per sé e via, Con la moglie che gi rinfaccia che porta troppi pochi soldi, con i figli che si dannano l’anima ma se c’è sempre l’ennesimo figlio di papà che ti passa davanti…
M: che l’altra sera parlavo con un ematologo francese qua per un congresso, bè sua madre prima viveva in una banlieu e adesso si è dovuta trasferire e si è ridotta a votare Le Pen, sperando che non debba mai più vedere dei ragazzini che le bruciano la macchina…
F : ma poi tu sei così sicuro che tutta questa violenza non sia solo uno dei tanti nostri avanzi……in fondo a noi le banliue fanno comodo….noi siamo tranquilli dalla parte giusta, loro da quella sbagliata: sono tossici, poi rubano, bruciano, non vanno a scuola.Ma noi vorremmo che i nostri figli crescessero con loro?
M: tu hai ragione. Ma poi anche tu, non prendiamoci in giro, quando sei vicina a un nero sul tram, la borsetta te la stringi stretta. E ti capisco anche. Alla fine ha ragione lui: ai greci andava bene, era fin troppo facile capire chi era il male, il mostro, chi la vittima….
Siamo tutti nello stesso labirinto, e non abbiamo più vittime innocenti da mandare…..
F: sì sì hai ragione, mi chiamano di là. Vado.( I ,non convinta, si allontana )
M: Vedi se ci penso mi sono dimenticato che le cose che questo vecchio pazzo mi raccontava mi piacevano anche . Ci pensavo un sacco, il pomeriggio…bè quando non pensavo ad Erika o qualche altra. Vedi, però, allora cambiavo una fidanzata a settimana. E non me ne fregava niente. Che poi non è che Achille grande eroe fosse perfetto come vuole far credere Brad Pitt…….come era già? Si era vestito da Donna, fra le figlie di quel re…va bè come si chiamava il re non mi ricordo;ma se cercassi sul libro del liceo troverei le pagine tutte consumate. Lui figlio di Dea arrivare ad umiliarsi, negare se stesso…Però, forse, per non morire chi è che non lo farebbe? Oggi chi non è pronto a barattare un etto della sua dignità anche solo per non passare un weekend da solo?E l’ho fatto anche io, in fondo. E l’alternativa non è morire con una freccia nel tallone….però io non passo alla storia, lui si…Che poi a ripensarci uno come Achille non sarebbe riuscito a fare a meno delle sue armi per sempre. Quel furbacchione di Odisseo ha solo accorciato i tempi…ma gli Dei in fondo erano stufi della pace e degli eroi, la guerra di Troia doveva iniziare subito. Che poi un Dio annoiato, che ne so per esempio Marte, faccio fatica a vedermelo…per loro siamo come i lego nelle mani di un bimbo….
( suona il telefono)
M: Pronto Soccorso, dica.( pausa) Va bene, allora avviso l’infermiera che arrivate.
M( rivolto verso l’uscita): Francesca, hanno telefonato dalla casa di riposo, vengono a riprendersi il professore.
I( da fuori): Bene, ora sta parlando di un certo Admeto, va sempre peggio, eh?
M: (verso fuori)Grazie. ( di nuovo tra sé) Admeto, il fanciullo amato da Apollo…questo mito me lo ricordo benissimo. L’ho sempre trovato affascinante, addirittura assurdo. In fondo non lo si può capire, è troppo assurdo. Certo che a pensarci mi piacerebbe essere un prof. Sedermi sulla cattedra davanti a venti ragazzi e cominciare a raccontare loro qualcosa, ma ci riuscirei?….lo so già, la mia vita si intrometterebbe…..se iniziassi a parlare di colui che tra gli dei è il modello nell’Amore, il divino Apollo. ( ora rivolto ad un immaginario pubblico ) Lui che sempre è l’amante, quella sola volta si fece oggetto d’amore, si fece pagare per esserlo: ( a se stesso)noi oggi questo tipo di scambi li fuggiamo, preferiamo comode rate non rimborsabili….Punito da Zeus, per colpa del figlio, fu mandato sotto mentite spoglie come servo al re di Fere in Tessaglia. E di questo re si innamorò come solo un Dio può fare: e certo poi un Dio non si deve mica confrontare con le piccole fatiche quotidiane…colla spesa da fare…le vacanza da decidere….. Per lui confuse il divino con l’umano, il cielo con la terra, l’amante con l’amato…faccio fatica a confonder il mio letto con quello di un’altra…. Ma andò ancora oltre. Quando giunse l’ora per Admeto di morire, Apollo, arriverà a fare ciò che nemmeno Zeus per l’amato Sarpedonte osò fare: ubriacò le Moire, figlie di Ananke, la Necessità, tessitrici silenti delle trame ordinate del mondo. …e io che non riesco nemmeno ad ingannare le scadenze di fine mese o il trillo del cellulare..Altri raccontano che ancora Admeto vive, e al suo posto di tanto in tanto qualcuno, come per prima fece la moglie Alcesti, lascia questo mondo: non conosco nessuno, oggi, che morirebbe per un altro…. Ma si sa che in fondo nessuna di queste cose mai avvenne, ma sono sempre.

Punti di vista

La vita, dicevi,
è un dono di dio,

io pensavo un semplice
vibrare di quark,
e pensavo che i nostri
ondeggiassero assieme
in un’armonia lieve,
ma forse era il mondo
troppo pesante
.

Dopo aver visto il film "il pianista"

Gioco di mano.

Aspetto in questa casa che non conosco, seduto su questa sedia appartenente a chissà chi, circondato da mobili che hanno visto le usuali azioni quotidiane di qualche famiglia borghese, ora maciullata dalla storia.
Aspetto paziente, non ho fretta: il freddo, la paura, la fame lavorano per me. Quella gente si demoralizza in fretta; ragionano con l’istinto e con la pancia, come bestie, non con la testa ed inevitabilmente cadono nelle nostre mani.
Aspetto; l’indirizzo, l’indirizzo di quest’appartamento nella zona più vecchia della città è stato sussurrato, scritto, chissà quante volte, mai dimenticato e mai urlato fra le torture, ma lo abbiamo avuto per caso, era fra le carte, forse occultato forse ignorato, di uno di quelli che abbiamo ucciso, massacrato. Non sapevamo cosa potesse significare. L’abbiamo sorvegliato, un viavai continuo di gente, di quella gente sparuta, smagrita, bestie con giacche e cappotti, pieni di toppe; siamo entrati, un’irruzione in grande stile, ma la coppia, elegante, forse colta, ci sono libri che non ho mai sentito, libri proibiti, forse li dovrò bruciare, si è buttata giù. Hanno lasciato scritto” Non ci avrete mai come volete voi” Come se a noi interessassero loro due! No, noi vogliamo gli altri, quelli che hanno nascosto, nutrito, per cui hanno mentito, che quando non avranno più niente da perdere verranno qui.
Me li immagino: suoneranno flebile, guardandosi intorno, timorosi di se stessi, aprirò, sorriderò li offrirò da bere, li farò parlare, mi fingerò loro amico, loro pari, loro complice, anche se mi fanno ribrezzo, e parleranno, senza rendersene conto, intere famiglie, interi gruppi saranno condannati dai loro stessi amici! Poi dopo che avranno parlato, gli offrirò di nuovo da bere, ma questa volta ci sarà qualcosa nel liquore o nel vino, ed in tre secondi stramazzeranno come topi, ora le nuove regole impongono così, niente più eliminazioni di massa, fucilazioni all’alba, a rompere la nebbia, meno prove ci saranno meglio è, non si sa mai se loro prendessero il sopravvento cosa potrebbe accadere…
E dopo che la voce, inevitabilmente si sarà sparsa, cambierò incarico.. Mi promuoveranno? Vorrei avere un ruolo più importante dirigere una di quelle prigioni per quei cani, avrei molte idee innovative per sfruttarli fino in fondo e se faccio bene questo lavoro, per me è solo una questione di promozione, in fondo sono un burocrate, un burocrate della morte.

Aspetto sotto questa casa che non conosco, in questo portone che immette a qualche lussuoso appartamento; la casa non sembra sorvegliata, è vero che si sono sparse strani voci, ma sento freddo, fame: il freddo mi assidera il cervello, ragiono solo con la pancia, mi hanno ridotto a questo…fuggo da tre anni, da uno non mi lavo, e l’odore che sottende tutti gli altri è quello della paura a volte inconsistente, a volte, a tradimento, assai aspro, da un anno non parlo con un amico in un caffè, da tre o quattro mesi non leggo un giornale, dormo in un letto, faccio l’amore….io non esisto! Se non esistessi! Potrei entrare in quell’appartamento, vedere chi c’è, decidere se fidarmi o no di loro…ma cosa cavolo sto pensando, piuttosto devo salire o no? Mi ricordo, un tempo ero bravo con le mani, facevo dei bei giochetti di prestigio, ogni tipi di scherzi, gli amici, ridevano e le donne erano conquistate, ma ora, ora mi sono rimasti due pezzetti d’ossa, non stringono quasi più…ma cazzo, basta fantasticare, sali, sali..va bene salgo, busso, ma dovrò poi veramente bussare, per me questo semplice movimento, che ho fatto sempre senza riflettere, senza rendermi conto di cosa significasse, è questione di vita o di morte…

“Ma guarda cosa è successo? Quell’idiota di Carlo è stato ucciso mentre seguiva quel caso così importante” “Ucciso, come? “ “non sappiamo come sia avvenuto: lo abbiamo trovato disteso, morto, ha preso del veleno, sembra si sia ucciso, ma perché, e poi la casa era aperta, tracce di un’altra persona.. un mistero. Comunque era un imbecille, pensava solo alla carriera, mi poteva fare ombra…ora basta parlare di lui, dobbiamo organizzare quell’ irruzione.. Dunque voi entrate di qua con i lacrimogeni, noi intanto…

No, l’ho ucciso, ma l’ho ucciso io? C’era qualcosa nel bicchiere per me oppure ..?
Il tipo era simpatico, anche se mi pareva falso….parlava, faceva domande: all’inizio, ero stringato, poi gli ho risposto, dovevo pur dirgli qualcosa. Lui parlava e si mostrava partecipe, ma secondo me era distante, forse un po’ ostile poi ha versato l’ennesimo bicchierino, e per un attimo in quell’atmosfera che non era accogliente, ma almeno non gelida, come ero ormai abituato, mi sono sentito ritornare quello di un tempo, e in un secondo, mentre si voltava a posare la bottiglia vuota ho invertito i bicchieri, saranno state le mani finalmente riscaldate, o non so che, ma non se ne è accorto, l’ha preso ridendo di gusto ed un secondo dopo rideva nello Stige: non ci volevo credere, l’ho scosso, ho urlato, e la mia voce mi sembrava risuonasse, dopo anni di sibili e sussurri, poi ho avuto paura, paura come se non avessi mai visto un morto…e sono uscito, sono scappato ed ora sono qui più solo di prima…..per me ogni scelta, la scelta di un singolo passo, di un passo che mi porta da uno dei loro, o da uno dei nostri è sempre una questione si sopravvivenza…

Qualcosa da capire

Spesso il male di vivere ho evitato,
era il libro lasciato cadere a metà,
la TV ammirata e desiderata,
il pc con il file not found:
mi sono nascosto

nel divano di una serata ubriaca,
nel letto di una persona non voluta,
nel bicchiere riempito con disgusto.
Spesso sono scappato, immerso nel vortice di sensazioni,
breaking news da ogni angolo del cosmo:
volevo annullare il mio corpo,
respirare con polmoni eschimesi,
vedere con occhi africani,
pensare con mente ebrea,
amare con cuore arabo,
muovermi con gambe europee,
usare mani americane, ma intanto sfuggivo
a ciò che mi era terribilmente vicino,
che potevo toccare con quelle mie mani,
da me ignorate.
Spesso ne sono uscito, intontito,

impastato, quasi impedito nei movimenti:
il mondo mi aveva lasciato,
e rimasto solo il nulla mi aspettava,
sicuro e impassibile, unico dio, unico signore.
Bene non seppi, fuor dalla scoperta
che schiude l’umana ironia:
era il libro aperto, il sorriso del perdono,
il verde dell’amore.

Atomi.

Leggiadre e mutabili fanciulle
incantano vanamente soloni
intenti a cullare le proprie tre anime colorate,
immobili e sprezzanti d'altro, la loro gravità trattiene giovani positivisti sicuri di sè:
i loro ruoli bloccati sostanziano la nostra inerpicante mutevolezza.

Sul pulman

Un impulso elettrico scatta nella rete di neuroni ancora addormentati, si fa strada lungo vie nervose paralizzate a causa della nebbia lasciata dagli ultimi brandelli del sonno, l’interesse si risveglia, Torino vista dal pullman imprigionato fra le macchine riacquista colore, la ragazza è seduta dall’altra parte, legge Calvino, non solleva lo sguardo, e come ipnotizzato la osservo, fuori sono immobile, dentro le mie cellule si stanno agitando in un convergere di curiosità, di domande, di tentativi di seduzione, mentre il pullman sembra scivolare lento, non più costretto fra le macchine, ma in perfetta sintonia con esse, come se si muovesse su rotaie cosparse di olio, i palazzi austeri è come se si piegassero verso di me, si sporgessero con curiosità nei finestrini per osservare la mia prossima mossa, agitassero i balconi e ammiccassero con le finestre per incoraggiarmi.
A fatica, come temendo di incrinare il fluire di movimenti perfetti, mi strappo dal sedile per obliterare il biglietto, in realtà per passarle vicino, vedere i riflessi rimbalzare dai suoi occhi ai capelli, e cercare di intrappolarne almeno uno, ma il pullman frena di colpo, inciampo quasi, è una fermata, lei scende, i palazzi si rialzano sdegnosi, guardandomi come se avessi perso un’occasione, e ora il pullman è di nuovo nella prigione delle macchine, e i miei impulsi elettrici girano a vuoto, freneticamente, come elettroni che hanno smarrito l’atomo.

Lucrezio o Leopardi?

O misere menti degli uomini, o petti ciechi!
In che tenebre di vita e tra quanto grandi pericoli

si consuma questa esistenza,
quale che sia!
E come non vedere
che nient'altro la natura
latrando reclama,
se non che il dolore
sia rimosso e sia assente dal corpo,
e nella mente essa goda
di un senso giocondo,
libera da affanno e timore?

Stretta attualità

La vita umana giaceva sulla terra
alla vista di tutti
turpemente schiacciata
dall'opprimente religione
che mostrava il capo dalle regioni celesti,
con orribile faccia incombendo dall'alto sui mortali.
Un uomo greco per la prima volta
osò levare contro di lei
gli occhi mortali,
e per primo resistere contro di lei.
Né le favole intorno agli dèi, né i fulmini,
né il cielo col minaccioso rimbombo lo trattennero:
anzi più gli accesero
il fiero valore dell'animo,
sì che volle, per primo,infrangere gli stretti serrami
delle porte della natura.
Così il vivido vigore dell'animo prevalse,
ed egli s'inoltrò lontano,
di là dalle fiammeggianti mura del mondo,
e il tutto immenso percorse con la mente e col cuore.
Di là, vittorioso, riporta a noi che cosa possa nascere,
che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa
abbia un potere finito e un termine,
profondamente confitto.

Il futuro che fa il verso al passato.

Il fumo copriva pietosamente misfatti, turpi, accordi, vendette atroci, a lungo rimandate fra vinti e sconfitti, sconfitti e vincitori, vincitori e trionfatori: la vendetta si era spinta fin sulle soglie di un piccolo edificio, che sembrava stesse per ardere “ giuseppe, la biblioteca brucia…” “ come brucia, ma i nostri nemici ci avevano assicurato che gli edifici di cultura sarebbero stati salvi..” con una nota di amarezza “ varrà solo per la Biblioteca, non certo per la nostra..” “ ma noi dobbiamo fare qualcosa, a chi possiamo chiedere aiuto?” “è impossibile , la gente fugge o ruba o muore o uccide…. paolo, l’altro bibliotecario stava per rispondere, quando individuò una fiamma alta, imponente come le cattedrali gotiche descritti negli stessi libri ora ridotti a combustibile “ giuseppe la biblioteca brucia…” “ ho capito ti stavo chiedendo cosa..” ma il suo sguardo si bloccò: entrambi che per tutta la vita erano stati ammirati, frustati, rapiti dalla grandezza di quel sapere rispetto al loro, sapere, conoscenza, cementati dal dubbio e dalla curiosità, che si allargava in ogni pietra; in quelle stanza vi erano pietre più sagge dei filosofi, lampade più luminose delle menti degli scienziati, e la stessa aria fissa, immobile delle sale di letture, sospesa come fili fra i libri, che scalpitavano per farsi leggere, era un libro essa stessa: ed ora tutto ciò bruciava, innaturalmente rapida, quasi come per farsi dimenticare, conscia per la sua saggezza che solo per gli stolti poteva sembrare infinita, dell’ardente fiamma che talora brucia giovani gli uomini. I due bibliotecari, ormai completamente dimentichi della loro biblioteca, dei loro compiti, si diressero verso l’enorme edificio, di cui il loro era solo un’emanazione, di cui loro stessi erano solo un’emanazione, due righe già scritte, in quell’enorme libro, di cui nessuno poteva conoscerne l’insieme, ma solo una capoverso o due, o una pagina, se era eccezionalmente arguto e se non era confuso da quel fumo In mezzo ad esso si vedevano soldati amici e nemici uccidere, commettere ogni atrocità, ma tutto era coperto dal fumo, così come i mille eccidi simili, battaglie descritti appaiono se raccontati in parte offuscati; non sono la vera vita, ma l’uomo la deve fissare sulla carta per carpirne e comprenderne anche solo un particolare, a costo di ridurla ad ombre di vita, ma come tali, forse, più profonde e durature. Arrivati allo spiazzale videro barbari che bruciavano, che insensibili usavano i libri come materiale, testi che avevano resistito per centinaia di anni, trattati con meticolosa cura, accarezzati, adorati, esaminati, odiati erano ora scaraventati per terra e ardevano, come se la vita che descrivevano scoppiasse, sangue nelle vene ormai cenere; giuseppe entrò di scatto nei corridoi che con reverenza stupita, con invidia che voleva sembrare abitudine aveva percorso, abbagliato dal fuoco del sapere, dalla curiosità che come lingue di fiamme penetravano le difese della sua ignoranza e pigrizia, che scorrevano sotto i marmi: ora questi ultimi implodevano e lo studioso si muoveva fra vulcano di libri, lapilli di pagine: paolo intanto all’esterno, allibito piangeva quasi nella vana ed assurda convinzione che le sue lacrime potessero calmare l’incendio, salvare anche un solo libro: il crollo del suo punto di riferimento, il grande limite che aveva puntato per tutta la vita: ricordava le sue visite da piccolo nel giardino, in cui anche la corteccia degli alberi sembrava incisa: ora il caos avanzava e distruggeva: per legge di natura atomi andavano in combustione, gli stessi atomi che formano i corpi dei vecchi bibliotecari, morti perché ormai incapaci di non abbeverarsi dai libri ogni giorno, attimo, le stesse particelle che costituiscono i cadaveri degli invasori sepolti da secoli di sapienza, dalle piante la cui linfa agonizzava. Giuseppe si aggirava smarrito, non cercava nemmeno di raccogliere i libri, si rese conto non della pazzia, ma dell’inutilità del suo gesto, cercò di arretrare, in un lampo di lucidità improvvisa capì che scappava per non fornire altro combustibile, perché il rogo maligno si estinguesse presto, ma la sua attenzione fu richiamata da una donna che incurante di tutto leggeva un libro, rimaneva lì, i piedi fra i tizzoni; era di mezza età, con i capelli grigi come la polvere, come ormai anche il volto, avvolto da un velo, “ ma cosa fai lì, fuggi” la scosse, ricoprendosi di polvere “ e perché farlo: ormai non ho più speranze, tutto è finito…” “ma puoi riiniziare, devi salvarti… “fare da bibliotecaria agli invasori: e poi lavorare con che cosa, con la cenere, non io di certo, io sono.. ” sorridendo amaramente “… un libro senza più ristampe, né seguito..” “ ma il tuo sapere, potrà servire a qualcun altro, se saremo di nuovo liberi” “ noi non ci libereremo più, ora che hanno sfondato le nostre difese, ora che le mura crollano, e le menti anche,,” giuseppe cercò di farla alzare, ma lei si strinse il volume al seno e si allontanò di scatto, ma inciampò in un cumulo di rotoli, radici di un albero infinito, cadde e fu sepolta dalla cenere , a giuseppe la nascose una cascata di libri, i suoi occhi rivolsero un ultimo sguardo al cielo, che si intravedeva al di del fumo e della biblioteca, poi vi tese contro il volume, quasi a sfidarlo..: l’uomo vide solo più il libro cadere ed attorcigliarsi nelle fiamme: quelle stesse di cui paolo non era riuscito a sopportare la vista, quando si era allontanato di corsa, tossendo per il fumo, voleva solo allontanarsi, fuggire ma i suoi passi si mossero verso la sua biblioteca, sarà stata l’abitudine o il senso di paura, o un oscuro sentimento di dovere: vi arrivò e vide che le fiamme avevano aggredito lentamente l’edificio, esattamente come la storia, che passava di lì senza affanno, non troppo interessata, distratta dall’obiettivo principale che stava divorando: entrò di scatto e affannosamente si mise a spegnere il fuoco, a togliere materiali, a buttare i libri nel cortile per sottrarli allo scempio “ signore, ma dove?” “ niente sono andato alla Biblioteca, sai pensavo si potesse fare qualcosa, ma…” “ anche qua c’è ancora molto da fare” disse il ragazzo che li aiutava, e con sguardo fisso, concentrato si mise metodicamente a spegnere le fiamme, sottrarre materiale all’incendio, cercare di portare acqua: paolo rimase per un attimo sorpreso da questa attività frenetica da parte di un giovane che fino a quel momento non si era mai mostrato così interessato al lavoro che compieva lì, quasi considerandolo un ripiego, un rifugio sicuro per tempi migliori poi lentamente si chinò urtando uno scaffale che sotto lo sguardo di rimprovero dell’aiutante crollò come un castello di illusioni, quelle illusioni che giuseppe cercava ancora: dopo l’incontro con la studiosa non aveva più incontrato uomini, ma solo fantasmi che fuggivano, scappavano, gli urlavano in tutte le lingue possibili, ma che esprimevano un medesimo terrore, pur nelle infinite varianti, entrò in un giardino, non capiva nemmeno più se era nella biblioteca, poteva aver oltrepassato il sottile muro divisorio, ormai mimetizzato fra la macerie: quegli alberi erano stati risparmiati, le foglie risplendevano ancora vagamente sotto la cenere, qualche cespuglio sopravviveva fra i mattoni caduti, i fiori delle aiuole avevano ancora una parvenza di ordine, si avvicinò per guardarli, forse per portarne qualcuno alla moglie, abitudine che sembrava in quel momento del tutto fuori luogo, ma tuttavia lo attirava soprattutto quel ramo di oleandro, dai fiori rosa, come il vestito che aveva indosso quella mattina, se era ancora viva…. ed un brivido lo percorse, si fermò, e vide il ramo scosso violentemente una mano vi si aggrappò, lo tirò a sé, quasi per cogliere i fiori, ma fu tirata indietro e vide un invasore che con violenza distrusse i fiori, nel tentativo di strappare il ramo, e teneva sotto di sé una ragazza che si dimenava: l’altro uomo aspettava impaziente, ma si accorse di giuseppe, si diresse verso di lui con la spada sguainata, traiettoria di morte e di fuga che lo studioso seguì: non provava veramente terrore, voleva solo evitarsi una morte inutile, rabbrividì nel pensarlo, ma quasi banale, almeno la studiosa era caduta per qualcosa, e il suo gesto aveva più valore perchè senza croci, resurrezione celebrazioni, manifestazioni d’oro e di gloria, ma più terribile per la sua mancanza di speranza: nella corsa furiosa non sia accorse ci ciò che lo calpestava, di coloro che lo buttavano per terra, che lo urtavano, potevano essere libri, merci, nemici, soldati: ansimante si allontanò, poi ritenendosi al sicuro per il momento, si volse e colse l’esatto momento del crollo totale, che sepolse con un rombo terribile il mondo: gli invasori continuarono a uccidere, rubare indifferenti, scostando semplicemente altro materiale ma lontano in altre biblioteche, in altre scuole, case, laboratori, in ogni posto ci fosse un libro, una persona provò un’immotivata stretta al cuore, un freddo improvviso: e furono molte le mani, che senza razionalità presero testi, li strinsero quasi per vedere se erano ancora vivi, per assicurarsi della loro integrità, stranamente lieti di vedere la vecchie, conosciute macchie, piegature che non li infangavano ma li arricchivano di memoria, e poi li posarono con un sospiro che per un qualche motivo non era di soddisfazione completa: e furono molti a stendersi a letto preoccupati, non erano i soliti mille problemi, era un qualcosa cui non potevano dar nome, di cui non potevano confidarsi nemmeno con la persona che giaceva vicino a loro, nel timore di non essere presi sul serio o forse di vedere lo stesso terrore che si infilava nelle coperte della loro normalità: queste cose giuseppe non le avrebbe mai sapute ora i suoi pensieri erano un fluido di sensazioni che si perdevano, e non c’era niente ad imprimervi una spinta verso l’alto, pari al peso del volume di fluido spostato, pensò sogghignando, che in questo caso era un oceano ma non di acqua, di rocce appuntite sulle quali il cammino senza protezioni era una fatica insultante: la stessa che stava provando paolo, che nella biblioteca stava riuscendo a spegnere quelle fiamme bastarde, che si annidavano nei libri, si nascondevano nelle rilegature, assaggiavano appena un trattato per poi accanirsi sul poema storico, si distraevano sul manuale di filosofia per poi cercare di infrattarsi nell’enciclopedia, sfuggivano all’acqua, ma soprattutto ai colpi di panno che cercavano di stanarle senza pietà, che lentamente le sterminavano, uccidevano intere famiglie di fuocherelli che si sviluppavano senza alcun rispetto, senza alcuna pietà “ mi sembra che qui abbiamo sistemato tutto” disse paolo abbracciando con lo sguardo la piccola aula e paragonandola allo splendore in rovina che aveva visto “ scendiamo un attimo in cortile, ci rinfrescheremo e poi daremo ancora una controllata…” i due scesero lentamente, come automi bruciati e senza controllo nel piccolo cortile laterale, bevvero e nell’acqua sporca paolo vide un volto che non conosceva, come si sarebbe potuto vedere nella tomba, coperto dalla polvere, invecchiato, perché il fumo aveva sottolineato le rughe, un libro senza ristampe, pensò amaramente, si voltò e sobbalzando per la sorpresa vide un altro volto come il suo “ ma allora sei salvo…” “ sì, è stato…” “ non sapevo più dove cercarti, i soldati mi hanno impedito di avvicinarmi, sono tornato..” “ qualcosa si è salvato? disse giuseppe quasi distrattamente, non pensando seriamente che gli potesse interessare il destino di un qualcosa di così indifferente, di un frammento di polvere, dopo avere visto crollare una galassia, ma quando sentì le parole d’orgoglio triste di paolo, e vide il luogo a lungo amato, anche se forse non se lo era mai confessato, provò una stretta di vergogna, e pensò che forse era stato inutile il suo affannarsi, che lì i suoi amici avevano bisogno di lui, che forse, ma i suoi pensieri furono interrotti da una lancia che lo abbattè di lato, un altro nome cancellato in un lungo elenco, una semplice lineetta tirata.

In un pub vicino al ponte

In un pub vicino al ponte un gruppo di ragazzi, ventenni, ridevano, scherzavano, e fra loro si confondeva una ragazza, che pareva risoluta a tenersi ai margini della conversazione.
Era uno di quei volti che la gente guarda con curiosità, con un misto di sollievo e di pena: il suo naso era come un frangiflutti, che aveva navigato e rotto le onde di tutti i mari, che forse per vendetta lo avevano inciso senza pietà, le sue braccia alberi poderosi, le gambe remi grassocci, e pensava, mentre sorrideva agli scherzi veloci dei suoi amici, a come la vita le fosse sempre scivolata addosso.
Il mare delle sue conoscenze non era mai andato oltre contatti superficiali, nessuna goccia d’uomo aveva mai osato sostare troppo a lungo nelle sue imponenti vicinanze, né l’agile schiuma delle sue amiche, anche di quelle più sincere, era mai riuscita del tutto a nascondere nei fondali del proprio essere un certo disagio.
Ma del resto, pensò mentre ordinava, faceva male a paragonarsi ad un galeone, troppo bello, capace di incutere rispetto, aurea di leggenda, pirati e maledizioni delle ultime lune, meglio una barcaccia, poco agile, goffa in ogni intervento, che iniziava una frase sentendola fuori posto, e la terminava con un sussurro, per poi riaffondare nell'alienante silenzio dei suoi abissi personali.
Poi certo il contorno non la aiutava, e sorseggiando la birra contemplò, mentre ascoltava distratta le confidenze su un ragazzo di una sua amica, il paesaggio sotto di lei, le macchine che passavano veloci, le luci dei lampioni, la fabbrica sul fiume, quasi alla kerouac, ma senza nessun american dream da violentare, solo piccole e forse meschine rotte alla ligabue su cui bisognava andare, ci si era stati messi senza possibilità di scegliere, o forse la si era scelta per un oscuro sentimento del dovere, e alla citazione involontaria sobbalzò, quasi imbarazzata nel non ricordarsi il nome di chi la aveva detto.
Per distrarsi, mentre continuava ad annuire all'amica, andò avanti a guardare le automobili ferme al semaforo poco sopra, che sembravano tante tombe luminose, con aria condizionata autoradio, che uscivano dal coma solo per sgommare via, e lei lì a guardare, si sentì sola, nonostante la compagnia ridente, ebbe voglia di sentirsi compianta, commiserata, ricacciò le lacrime, che venivano a tradimento, fuori bordo volle incolpare qualcuno, guardò le stelle ma non si vedevano, coperte dall’insegna del bar.